Quando a marzo l’Italia fece da apripista per il resto dell’Occidente con l’imposizione del suo primo “lockdown”, ci fu un paese in Europa che resistette senza tentennamenti alle chiusure: la Svezia. Il governo di Stoccolma si limitò ad emanare una sorta di decalogo di raccomandazioni rivolte alla popolazione per frenare i contagi. Si parlò di “modello svedese”, di “tocco leggero”, in linea con la tradizione liberale del paese scandinavo. La politica nazionale si difese dagli attacchi stranieri, reagendo alle accuse di insensibilità dinnanzi alle perdite di vite umane che questa scelta avrebbe potuto comportare.

“Non siamo come in Spagna o in Italia, dove ci si abbraccia e ci si bacia per salutarci”, rispondevano dall’esecutivo, facendo notare che gli svedesi sono avvezzi alle regole e non avrebbero bisogno di imposizioni per seguirle.

A distanza di oltre 9 mesi, i risultati del modello svedese non sono incoraggianti, per quanto non vadano demonizzati a priori. La linea del premier socialdemocratico Stefan Loefven, sposata grosso modo anche dalle opposizioni, resta la stessa: evitare le chiusure e limitarsi a raccomandare alla popolazione comportamenti prudenti. Tuttavia, i numeri della seconda ondata sono drammatici anche qui, per quanto inferiori a livello pro-capite rispetto a quelli di paesi come l’Italia. Per la prima volta, il governo ha disposto la chiusura di tutte le scuole e il divieto di assembramento oltre le 8 persone, mentre ai locali è fatto divieto di servire alcoolici dopo le ore 22. Siamo ancora perlopiù alle raccomandazioni, ma qualcosa è cambiato anche nel modo di vedere le cose da parte degli svedesi.

La popolarità di Anders Tegnell, l’epidemiologo a capo della gestione della pandemia e che ha suggerito al governo di perseguire l’immunità di gregge, è in caduta libera dalla fine di questa estate, pur rimanendo elevata (intorno al 60%). Sta di fatto che lo scienziato ha sentito il bisogno nei giorni scorsi di dichiarare che le decisioni adottate per combattere la pandemia non sarebbero solo frutto di sue scelte, ma condivise da un gruppo di esperti ben più nutrito.

Come a mettere le mani avanti rispetto a possibili recriminazioni future.

Il modello svedese nella lotta al Covid-19 ha funzionato davvero?

Dati pandemia in Svezia

Dicevamo, i dati non sarebbero esaltanti. In Svezia, il numero dei morti si attesta intorno alle 8.000 unità, qualcosa come più di 78 persone ogni 100 mila abitanti. Siamo molto meno dei 111 dell’Italia, ma il confronto andrebbe effettuato con il resto della Scandinavia, le cui condizioni climatiche e socio-demografiche appaiono più omogenee. In effetti, i risultati si rivelano nettamente peggiori che altrove. In Danimarca, neppure si arriva a 18 morti per 100 mila abitanti, in Norvegia si crolla a 7,5 e in Finlandia a meno di 9. Dunque, gli svedesi hanno registrato più di 10 volte i morti norvegesi, 5 volte quelli danesi e 9 volte quelli finlandesi, in rapporto alle rispettive popolazioni.

Lo stesso tasso di letalità, vale a dire il rapporto tra decessi e positivi, risulta significativamente più elevato: al 2,18%, contro lo 0,77% della Danimarca, lo 0,92% della Norvegia e l’1,47% della Finlandia. Meglio che in Italia, dove si arriva al 3,50%, e in linea con la Germania. Ma ancora una volta, il raffronto con il resto della Scandinavia rimane pessimo.

Adesso, il governo vuole far passare una legge che gli consentirebbe di disporre di misure coercitive nel caso in cui i numeri della pandemia peggiorassero. Fino alla scorsa estate, i maggiori morti rispetto ai paesi confinanti erano stati tollerati dagli svedesi sulla prospettiva del raggiungimento dell’immunità di gregge, che avrebbe dovuto evitare la seconda ondata, contrariamente a quanto sarebbe dovuto avvenire nel resto d’Europa. Quando siamo arrivati a Natale, la realtà si mostra ben diversa: la seconda ondata c’è stata ovunque e non ha risparmiato nemmeno la Svezia, che a questo punto potrebbe aver “sacrificato” invano molti suoi malati più deboli.

Sul piano economico, bisogna ammettere che i dati appaiono migliori rispetto al resto della Scandinavia. L’Unione Europea stima un calo del PIL del 3,4% quest’anno, seguito da un +3,3% nel 2021. A conti fatti, già alla fine del prossimo anno Stoccolma quasi si metterebbe alle spalle la crisi, facendo meglio di Danimarca, Norvegia e, soprattutto, Finlandia. Certo, siamo alle previsioni e quanto sta accadendo in queste settimane potrebbe mutare la realtà in un senso o nell’altro. Tirando le somme, la Svezia ha perseguito una linea tutta sua, che presenta diverse ombre sul piano sanitario, a fronte di qualche vantaggio non così nitido sul piano economico. E offre una lezione anche ai governanti italiani, che pretendono di scaricare le responsabilità delle loro scelte confuse sulla popolazione: quando il semaforo non c’è o funziona male, il traffico rischia di andare in tilt. Vale a Roma come a Stoccolma. Non abbiamo minore senso civico degli altri.

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