Karlsruhe e Francoforte sono due città della Germania e distano tra loro 140 km, all’incirca la distanza tra Roma e Cassino, ma mai come da due giorni sembrano così lontane. Nella prima, ha sede la Corte Costituzionale tedesca, che martedì mattina ha emesso una sentenza senza precedenti contro la BCE, la quale ha sede nella seconda. Entro tre mesi, essa dovrà fornire adeguate spiegazioni circa il principio di proporzionalità degli acquisti di assets condotti con il suo “quantitative easing”, altrimenti la Bundesbank non potrà più parteciparvi.

Se pur non sia stata una bocciatura formale del QE, nei fatti mette in dubbio la compatibilità dell’operato dell’istituto con la Grundgesetz della Germania, lasciando intravedere il rischio di una ritirata di questa dai programmi di politica monetaria varati sotto Mario Draghi prima e proseguiti e potenziati sotto Christine Lagarde adesso.

La Corte Costituzionale salva a metà il QE della BCE, per BTp notizia non buona

Ieri, la Commissione europea ha diffuso le stime macro sull’Eurozona, il cui pil quest’anno dovrebbe crollare del 7,7%, rimbalzando del 6,3% nel 2021. Nel frattempo, il rapporto debito/pil negli stati dell’euro salirà prossimo al 100%, con punte di quasi il 160% in Italia. Il momento è durissimo, non solo per l’unione monetaria a dire il vero, per cui esigerebbe il massimo degli sforzi per marciare tutti uniti contro la crisi. Invece, abbiamo una paralisi di Commissione e Consiglio UE su come affrontare l’emergenza sul piano fiscale, a cui si è aggiunto un forte discredito della BCE con la sentenza tedesca.

Vacilla la credibilità della BCE

Le implicazioni pratiche ci saranno, a differenza di quanto dichiari il nostro ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che resta lo stesso che rassicurava sulla non condizionalità del MES per gli aiuti sanitari. E si concretizzeranno sin da subito. Il 12 marzo scorso, in conferenza stampa dopo il board, il governatore ebbe ad affermare che “we’re not here to close the spreads” (“non siamo qui a restringere gli spread”), un’espressione che alle orecchie di analisti e investitori sembrò un “whatever it takes” all’incontrario.

La gaffe scatenò l’esplosione dei rendimenti italiani, ma anche spagnoli, portoghesi e, in parte, persino francesi, ma venne riparata qualche giorno dopo dal varo del PEPP, il piano da 750 miliardi legato alla pandemia e che consiste in acquisti di bond senza il dovuto rispetto del “capital key”, cioè senza vincolarli alle dimensioni economiche degli stati.

In un certo senso, il PEPP è stato inteso dai mercati come un piano anti-spread sui generis, un modo di Lagarde di farsi perdonare quella triste battuta, correndo ai ripari. Di per sé, una banca centrale non può permettersi una linea ondivaga su un aspetto così fondamentale del suo mandato, rischiando di perdere credibilità e di affievolire l’efficacia delle sue misure finalizzate a perseguire la stabilità dei prezzi. Data la complessità tecnico-giuridica di gestire un’unica politica monetaria per 19 stati diversi, i mercati hanno chiuso un occhio, sebbene da quella battuta infausta lo spread italiano non sia più sceso sotto i livelli di guardia, rimanendo pari o nettamente sopra i 200 punti base. Adesso, la sentenza tedesca mette in dubbio proprio gli sforzi di riparazione compiuti da Francoforte nelle ultime settimane, gettando discredito sul suo operato dal punto di vista legale.

Per quanto il PEPP non sia stato oggetto di esame dei giudici di Karlsruhe, ad esso corre la mente quando essi fanno riferimento al principio di proporzionalità. Se la BCE è chiamata a dare spiegazioni sul QE, che pure prevede acquisti dei bond sovrani commisurati ai pil degli stati, cosa dovremmo dire di un PEPP, in cui questo vincolo non esiste nemmeno formalmente, tant’è che l’istituto sta acquistando in queste settimane BTp per una percentuale più che doppia della sua quota altrimenti spettante, ai danni dei Bund della Germania e dei bond olandesi, in particolare? E se da un lato la sentenza pone un limite alle aspettative eccessive che il mercato e i governi ripongono nella politica monetaria, dall’altro la stessa Germania si oppone a soluzioni di compromesso apparentemente ragionevoli sul piano fiscale.

Perché per i BTp la vita si è fatta più dura e suona l’allarme BCE

I rischi per l’euro

Dunque, ci troviamo con un’economia nell’Eurozona al collasso, con i debiti che stanno esplodendo, senza che le emissioni comuni di bond vengano prese in considerazione per impedire agli stati fiscalmente più deboli di contenere i costi sugli interessi da pagare al mercato e senza nemmeno che si consenta alla BCE di coprire loro le spalle con programmi di acquisto volti essenzialmente ad assorbire gli extra-deficit. Per quanto torto possano avere i governi che non hanno voluto o saputo fare i conti con i loro disavanzi pubblici, il tema non può porsi in piena emergenza, a meno che non si voglia mettere in conto seriamente la fine dell’euro. L’unica alternativa praticabile sarebbe, infatti, il ricorso al MES, il Fondo salva-stati, congegnato per erogare aiuti condizionati alla sottoscrizione di un memorandum d’intesa.

Politicamente, sarebbe una strada molto stretta da praticare, in quanto rischia di alimentare forti tensioni tra stati e all’interno di essi, con i movimenti euro-scettici a raccogliere consensi a mani basse contro la prospettiva di un commissariamento di Bruxelles. E se finora l’opzione di uscita dall’euro è stata solo minacciata e mai seriamente messa in atto da alcun partito, una volta arrivato al governo, con economie prossime a toccare il fondo e il malessere sociale in pericolosa ascesa, nulla potrà più escludersi. E dopo Karlsruhe, chissà che la Germania non spinga proprio per uno scenario estremo, al fine di accelerare gli eventi percepiti come inevitabili per via dell’incompatibilità  tra culture politiche e di governo all’interno della stessa unione monetaria!

Ecco la tecnica della Germania per costringerci al MES

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