La crisi energetica sta assestando un duro colpo alle economie avanzate. L’Occidente nel suo insieme soffre, quasi una riedizione dell’infausto decennio iniziato nel 1973 con la prima crisi petrolifera e che si concluse a inizio anni Ottanta solo con una recessione economica controllata da USA e Regno Unito per disinflazionare le rispettive economie attraverso maxi-rialzi dei tassi d’interesse. E così come allora i paesi esportatori di petrolio brillarono, approfittando del boom delle quotazioni del greggio, anche stavolta ad approfittarne sono i produttori di materie prime.

In particolare, spiccano in questa fase i cosiddetti BRICS, sigla che sta per Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. L’acronimo risale all’inizio del nuovo millennio, quando queste economie si mostravano le più promettenti.

Cosa sta succedendo in questi mesi? Il boom dei prezzi di petrolio, gas, ma anche di molte altre materie prime, persino derrate alimentari, sta portando in forte passivo le bilance commerciali di USA, Europa e Giappone. A dire il vero, gli USA registrano ormai ampi deficit cronici, i quali semmai stanno ampliandosi. Sta di fatto che l’Unione Europea (UE) è passata da un avanzo commerciale di oltre 200 miliardi di euro nel 2021 a un disavanzo di ugual valore accumulato già nel primo semestre di quest’anno.

Vola export dei BRICS

Tra UE, Regno Unito, USA e Giappone i primi sei mesi del 2022 si sono chiusi con un passivo di circa 960 miliardi di dollari. A tanto ammontano le maggiori importazioni rispetto alle esportazioni. Ma se una parte del mondo compra, l’altra parte vende. Chi per l’esattezza? E qui veniamo ai BRICS. La sola Cina ha chiuso il primo semestre con un attivo della bilancia commerciale a 391,15 miliardi di dollari. Per la Russia non esistono dati aggiornati sul solo interscambio commerciale, ma sappiamo che le sue partite correnti – una sorta di proxy dell’import/export – hanno segnato +138,5 miliardi in sei mesi.

Bene anche Brasile (39,4 miliardi) e Sudafrica (79 miliardi), mentre solamente l’India ha segnato un passivo di 157,4 miliardi. E non è un caso, visto che il subcontinente asiatico deve importare gran parte dell’energia che consuma.

In totale, i BRICS registrano un attivo commerciale di quasi mezzo trilione di dollari nel primo semestre, ossia sui 491 miliardi. Escludendo l’India, il dato sale a 648 miliardi. E se aggiungessimo l’Arabia Saudita, tra i principali esportatori di petrolio al mondo, saliremmo a 757 miliardi. Inutile girarci attorno: l’Occidente paga e i BRICS fatturano. La ricchezza si sta spostando in Asia, laddove si trovano fornitori di energia come Russia e Arabia Saudita ed esportatori a buon mercato come il gigante cinese.

Occidente a rischio recessione

Di questo passo, l’Unione Europea sta passando dal macinare esportazioni nette medie intorno al 2% del PIL a un passivo del 2%. Insomma, da venditore a consumatore il passo è stato breve. I BRICS godono, seppure non complessivamente le loro valute. Solo il real brasiliano e il rublo russo guadagnano quest’anno contro il dollaro, rispettivamente il 10% e il 25%. Ad ogni modo, i governi si sentono autorizzati a sognare in grande, a concepire il mondo sempre meno dollaro-centrico e subordinato all’Occidente. I dati sembrano dare loro ragione in questa fase, se non fosse che senza le grandi economie mondiali come USA, Europa e Giappone, non ci sarebbe a chi vendere merci e materie prime.

Gli attuali forti squilibri commerciali non appaiono sostenibili. Prima o poi i saldi si dovranno riequilibrare, con i passivi dell’Occidente a contrarsi, così come gli attivi dei BRICS. Ma è probabile che tale aggiustamento avvenga tramite una recessione economica di Europa e USA, la sola forse in grado di piegare le quotazioni delle materie prime.

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