Erano gli inizi degli anni Novanta, quando l’Italia prendeva seriamente consapevolezza di avere un problema molto grosso con il proprio debito pubblico. La Prima Repubblica stava implodendo. Da allora, di acqua sotto i ponti ne è passata. Non si contano i governi di tutti i colori e per tutti i gusti che si sono succeduti. In apparenza, non c’è stato premier che non abbia stretto la cinghia, nemmeno quanti siano stati colpiti dall’infamia di comportarsi da spendaccioni. L’avanzo primario è una costante per i conti pubblici italiani, ma alla fine della fiera restiamo il secondo paese dell’Eurozona più indebitato dopo la Grecia e per ciò stesso continuiamo a rappresentare una minaccia “sistemica” per l’area, stando anche all’ultimo rapporto del Fondo Monetario Internazionale.

La verità sul debito pubblico a luglio, impennatosi per giusta causa

E dire che nell’euro eravamo entrati senza convinzione, semmai per agganciarci a stati virtuosi come la Germania e risparmiare sugli interessi, oltre che per non avere più seccature con la liretta. Qualcosa è andato storto; sarebbe da fessi non prenderne atto, se è vero che con il vecchio conio l’apice del nostro rapporto debito/pil venne raggiunto nel 1994 al 126% e che adesso stiamo al 133%.

Negli ultimi 20 anni, il debito pubblico italiano è cresciuto in termini nominali dell’80%, cioè al ritmo medio del 3%. Nello stesso periodo, il pil si è espanso di un più contenuto 50%, cioè del 2% all’anno. In termini reali, la nostra crescita economica è stata di appena lo 0,5%, praticamente uno stato di perenne stagnazione. Detratto il tasso d’inflazione, il debito pubblico risulta così aumentato del 45%, cioè dell’1,5% all’anno, 3 volte in più del pil. E prima dell’euro? Nel decennio che va dal 1990 al 1999, il debito pubblico era salito di oltre il 100%, il pil di appena il 44%. Al netto dell’inflazione, la crescita dell’economia era stata dell’1,5% e quella del debito del 4,6%, anche in questo caso 3 volte più alta.

Sul debito pesano le non scelte

Signori, il fallimento dell’Italia nell’euro – si badi bene, non dell’euro – sta tutta in queste cifre. Siamo passati da una moneta all’altra, abbiamo risparmiato fiori di interessi sullo stock accumulato (il 12% del pil nel 1993, il 3,7% nel 2018), ritrovandoci con una velocità di crescita di quest’ultimo sostanzialmente invariata rispetto a quella dell’economia. Prima c’era stata un’espansione accettabile del pil, surclassata da quella del debito. Con l’euro è scomparsa la crescita dell’economia e quella del debito, pur moderata, è rimasta relativamente elevata.

Ecco perché il debito pubblico italiano con questi numeri ci condanna all’austerità

Solo per farci un’idea, se dal 1999 avessimo mantenuto ogni anno il pareggio di bilancio, comportandoci un po’ come la Germania degli ultimi tempi, avremmo fatto crollare il rapporto debito/pil al 75%. Certo, probabile che il necessario aumento dell’avanzo primario avrebbe strozzato ulteriormente l’economia, deprimendo il denominatore, ma verosimilmente avrebbe fatto scendere più velocemente anche la spesa per interessi, che prima dei magheggi della BCE dal 2014 in poi si attestava in Italia alla media del 5% del pil o poco meno. E alla lunga avrebbe stimolato gli investimenti per via della maggiore fiducia sulla nostra solidità fiscale.

Avremmo dovuto fare più austerità o ciò avrebbe finito per peggiorare lo stato dei conti pubblici? Probabile che la risposta risieda in due parole tanto abusate, quanto evase nel dibattito politico di questi decenni: riforme strutturali. La spesa pubblica avrebbe dovuto essere presa di petto con azioni lungimiranti, non tagliando qua e là i servizi e creando pure malcontento. E la stessa economia avrebbe dovuto essere sostenuta nel medio-lungo termine con liberalizzazioni, picconando la burocrazia, investendo in infrastrutture e privatizzando gli assets in mano allo stato.

Avremmo avuto un po’ più di crescita, un po’ meno debiti e i mercati avrebbero forse cambiato idea su di noi, anziché tenerci nel mirino come lepri nel bosco durante la stagione della caccia.

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