Anche Alvarez & Marsal getta la spugna. La società incaricata di condurre un’audit sulla Banca del Libano ha avuto accesso solo al 43% della documentazione che le sarebbe servita per indagare sulle responsabilità dell’istituto in merito alla gravissimi crisi economica e finanziaria esplosa nel Paese dei Cedri da circa un anno. Il governatore Riad Salameh oppone il segreto bancario, mentre il Parlamento ritiene che già oggi le leggi vigenti consentirebbero alla banca centrale di collaborare con società esterne per valutarne l’operato passato.

Nei mesi scorsi, Kroll era rimasta vittima delle pregiudiziali espresse per i suoi rapporti con Israele.

Fatto sta che l’audit è stato chiesto non solo dalle autorità di Beirut, ma anche dagli organismi internazionali come precondizione per erogare prestiti. Bisogna capire il ruolo che l’istituto ha avuto nella crisi. Il livello di corruzione è altissimo in tutti gli apparati dello stato e c’è il sospetto che le passività siano state superiori a quelle che avrebbero dovuto, con parte del denaro finito chissà in quali tasche. Il presidente Michel Aoun, nel corso di un discorso pubblico per il 77-esimo anno dell’indipendenza nazionale dalla Francia, lo scorso 22 novembre ha citato proprio la corruzione quale male principale che si annida nelle istituzioni domestiche.

Ecco perché gli aiuti al Libano dopo la distruzione non arriveranno presto

Lo schema Ponzi della banca centrale

La Banca del Libano, anche solo escludendo eventuali illeciti, ha gravissime responsabilità in quello che sta accadendo da tempo nel paese. Tuttavia, la politica è ipocrita nel chiederne la testa, essendo stata la principale beneficiaria e correa delle iniziative messe in campo da Salameh. Per anni, il sistema finanziario libanese si è basato su uno schema Ponzi istituzionalizzato. Dagli anni Novanta, la lira libanese è ancorata al dollaro a un “peg” di circa 1.512. Per un po’, il cambio fisso ha retto grazie agli afflussi di capitali esteri seguito alla fine della guerra civile e alla ripresa del turismo.

Con il tempo, l’insufficienza dei capitali in ingresso, specie a seguito delle tensioni nella vicina Siria e a quelle relative all’Iran (di fatto, protettore del Libano), ha spinto l’istituto ad inventarsi un sistema che potremmo definire una sorta di catena di Sant’Antonio. Alle banche offriva alti interessi sui depositi in dollari e ancor di più su quelli in valuta locale e a loro volta queste le giravano ai clienti, pur a livelli un po’ più bassi. In questo modo, gli emigranti libanesi, così come i risparmiatori siriani portavano i loro denari presso le banche locali, le quali non li utilizzavano per investirli nell’economia reale o sui mercati finanziari, bensì semplicemente per offrirli alla Banca del Libano. E questa accumulava montagne di debiti, senza avere alcuna possibilità di ripagarli, se non attraverso i nuovi capitali che le banche riuscivano ad attirare con la promessa di interessi spaventosamente elevati nel confronto internazionale. Il denaro veniva, poi, trasmesso alla politica per far vivere l’economia sopra le sue possibilità.

Questo castello di carta è crollato un anno fa. Le proteste di piazza in ottobre contro la corruzione portarono alle dimissioni il premier Saad Hariri, mettendo in fuga i capitali esteri. Non entrando più dollari, la banca centrale non ebbe più modo di ripagare le banche, le quali a loro volta dovettero imporre ai clienti restrizioni ai prelievi dai conti e svalutazioni sulle conversioni in dollari. Il bluff veniva svelato, mentre l’economia collassava sotto i colpi del crollo della lira. Al mercato nero, è arrivata a scambiare 8.000 contro un dollaro, segnando -80% in un anno. L’inflazione è così esplosa al 137% di ottobre, mentre il PIL in 3 anni ha perso quasi il 20%.

Libano, il gigantesco schema Ponzi che ha distrutto Beirut prima dell’esplosione

L’impasse passa da Teheran

Dopo Hariri è stato chiamato a guidare il governo Hassan Diab, che si è dimesso dopo le esplosioni di agosto al porto di Beirut.

Da allora, il governo è rimasto in carica in attesa di un successore, che tarda ad arrivare per i veti incrociati tra fazioni sciite, sunnite e cristiane. Hariri è stato richiamato in servizio da Aoun, ma non sta riuscendo a formare il nuovo governo. Del resto, non si capisce su quali basi dovrebbe nascere. Hezbollah, la principale formazione per consenso, filo-iraniana e sciita, resta contraria agli aiuti internazionali in cambio di riforme. Il gruppo degli stati creditori, che nel 2018 si era impegnato a sborsare fino a 12 miliardi di dollari a favore di Beirut, per questo sta “congelando” il suo sostegno, invocando proprio le riforme, le stesse che la Francia di Emmanuel Macron pretende prima di offrire il suo aiuto al prossimo governo.

La sensazione è che la situazione non si sblocchi non solo per l’impossibilità di condurre un’indagine appropriata sulla Banca del Libano, ma anche per le tensioni tra Iran e USA. Nessuno, men che mai il Fondo Monetario Internazionale, presterà un solo dollaro a una nazione in combutta con la repubblica degli ayatollah, accusata di terrorismo dalla Casa Bianca. La nuova amministrazione americana di Joe Biden dovrebbe mostrarsi molto più benevola con Teheran, ma prima che l’impasse si sblocchi passeranno certamente mesi. E di tempo Beirut ne ha davvero poco.

A che punto siamo con la crisi in Libano? Peggio di quanto immaginiamo

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