Non puoi dire che un film sia bello o brutto prima della sigla finale. Alcune pellicole danno il meglio di sé o deludono irrimediabilmente proprio nelle ultime scene. Alcune come “Bad Match” danno il senso di quanto accaduto nella precedente ora e mezza solo negli ultimissimi secondi. E spesso è così anche per gli eventi macroeconomici. Li si definisce in un senso o nell’altro all’inizio e poi ci si ricrede quando hanno dispiegato del tutto i loro effetti. L’inflazione è considerata tipicamente un toccasana per i conti dello stato.

Poiché “gonfia” il PIL nominale e le entrate fiscali, si pensa che possa ridurre il grado di indebitamento di un’economia. Insomma, più inflazione equivarrebbe a un più basso rapporto debito/PIL.

A guardare quanto accaduto nell’ultimo biennio, sembrerebbe di sì. A causa della pandemia, avevamo raggiunto un picco di debito pubblico sopra il 155% del PIL. Due anni più tardi scendevamo al 144,4%, oltre dieci punti in meno e in buona parte grazie proprio all’inflazione. Questa è salita in media all’8,1% nel 2022, ai massimi da circa quaranta anni. Ma la realtà è complessa e prima o poi presenta il conto. Già quest’anno le pensioni erogate dall’Inps sono aumentate di oltre 20 miliardi a causa dell’indicizzazione degli assegni al carovita. E dire che il governo Meloni ha tagliato la rivalutazione per i trattamenti sopra le quattro volte il minimo. Nel triennio 2023-2025, l’ente previdenziale dovrà sborsare oltre una cinquantina di miliardi in più. A posteriori potremmo assistere a una spesa ancora più alta, dato che l’inflazione sta rimanendo più alta e più a lungo delle previsioni.

Nel frattempo, il gettito fiscale aumenta, ma molto lentamente: +3,3% nei primi quattro mesi dell’anno. Qualcosa sta andando storto? Sì, i redditi non balzano come dovrebbero. Gli stipendi perdono potere di acquisto: -7% nel 2022.

Nel primo semestre di quest’anno, saremmo a -7,5%. Significa che le le entrate delle famiglie non stanno tenendo il passo con l’aumento dei prezzi. Inevitabile il calo dei consumi, sebbene finora questi siano finanziati attingendo ai risparmi accumulati durante la pandemia.

Inflazione nociva per conti pubblici

L’inflazione sta facendo esplodere una tematica rimasta sopita per decenni nel dibattito pubblico italiano. Gli stipendi non crescono da oltre trenta anni, solo che finché i prezzi restavano grosso modo stabili, le lamentele erano contenute. Adesso, il problema è diventato insostenibile. Le imprese possono addurre tutte le spiegazioni di questo mondo, ma pensare di poter retribuire i dipendenti senza aggiornare le retribuzioni non è possibile. Si mettano l’animo in pace: o trovano il modo di diventare più produttive o accettano di tagliare i profitti. In alternativa, o vanno incontro a tensioni sindacali sempre più forti o molto più semplicemente non troveranno manodopera disponibile e chiuderanno battenti.

Tra le imprese vi è anche la Pubblica Amministrazione, tenuta anch’essa a rivedere gli stipendi pubblici dopo una fase di così alta inflazione. Se in passato i candidati ai concorsoni non mancavano mai, anzi non si trovavano luoghi idonei per ospitare le migliaia di interessati, adesso la situazione si è capovolta. I vari comparti dello stato stanno indicendo numerosi bandi per rimpiazzare le fuoriuscite dei dipendenti in pensione, ma le candidature sono quasi sempre inferiori ai posti disponibili e, soprattutto, i vincitori neppure si presentano a firmare l’accettazione. E’ il mondo che cambia. Per lo stato significa solo una cosa: non può confidare sull’appeal storico per il posto pubblico. Se non rivede le condizioni contrattuali, dagli stipendi alle modalità di svolgimento del lavoro, rischia di non potere più fornire neppure servizi essenziali come la sanità.

Infine, una volta che l’inflazione entra nei modi di ragionare delle persone, cambiano le aspettative future.

Ad esempio, nessuno accetterà più di comprare titoli di stato con rendimenti del 2-3%. Pretenderà di più e ciò finirà per aumentare il costo di emissione del debito pubblico. In conclusione, l’inflazione non sarebbe quell’affare che pensavamo per i conti dello stato. Al contrario, essa potrebbe avere rotto una tregua che consentiva alle parti in causa (sul mercato del lavoro e degli investimenti) di accontentarsi.

[email protected]