Le trattative tra sindacati e governo sulla riforma delle pensioni rimane tutta in salita. Il premier Mario Draghi ha fatto presente che qualsiasi ritocco al sistema previdenziale dovrà avvenire senza intaccarne la sostenibilità. CGIL, CISL e UIL chiedono flessibilità per non tornare alla legge Fornero dopo la fine di quota 100, che per quest’anno sarà rimpiazzata da quota 102. Ritengono che i lavoratori debbano potere andare in pensione già a partire dai 62 anni di età o, indifferentemente dall’età, con almeno 41 anni di contributi.

Draghi e i suoi ministri non sembrano intenzionati di scendere sotto 64 anni. Perché questa soglia anagrafica? In media nell’area OCSE, che raggruppa le economie più sviluppate del pianeta, si va in pensione a 64 anni. In Italia, restiamo inchiodati a 62 anni, malgrado l’età ufficiale sia stata innalzata a 67 anni per uomini e donne. Troppe scappatoie aggirano quest’ultima, tra cui le numerose salvaguardie, Opzione Donna, etc.

L’idea del presidente INPS, Pasquale Tridico, sarebbe di consentire ai lavoratori di andare in pensione a 64 anni di età, ma solamente con la quota dell’assegno liquidata con il metodo contributivo. Al raggiungimento dei 67 anni, i pensionati si vedrebbero erogata anche la quota retributiva, per cui l’assegno diverrebbe pieno. Il costo della misura sarebbe molto basso, stimato nell’ordine di poche centinaia di milioni di euro all’anno. Ma dopo alcuni anni, per lo stato il saldo diverrebbe positivo. Infatti, andando prima in pensione i lavoratori riceverebbero un assegno d’importo inferiore a quello a cui avrebbero avuto diritto a 67 anni.

In pensione con il contributivo puro

Con il metodo contributivo, i lavoratori percepiranno in futuro una pensione legata ai contributi versati. Funziona esattamente come un sistema a capitalizzazione privato. Non si capisce bene, quindi, perché lo stato debba impormi un’età minima a cui andare in pensione, quando starei ricevendo indietro semplicemente i contributi versati e rivalutati.

La risposta sta nell’equivoco di pensare che l’INPS funzioni esattamente come un fondo pensione privato con il calcolo contributivo dell’assegno. Non è così.

Un fondo pensione privato riceve i contributi dagli iscritti e li investe per metterli a frutto. E così, la posizione può essere riscattata a ogni momento, salvo gli anni di investimento minimi richiesti. L’INPS riceve i contributi dagli iscritti, ma non li può investire, in quanto gli serviranno per pagare gli assegni a coloro che sono già in pensione. Dunque, se tutti i lavoratori decidessero di andare in pensione all’età che vogliono, l’ente si troverebbe sprovvisti di mezzi per pagare le pensioni. D’altra parte, con il contributivo pieno non è un mistero che i lavoratori riceveranno assegni più leggeri, per cui non converrà loro anticipare di molto il pensionamento, altrimenti rischierebbero una terza età in affanno.

Possibile una soluzione di compromesso? A dire il vero, sì. Per evitare assegni incongrui e casse dell’INPS vuote, il legislatore dovrebbe e potrebbe prevedere la possibilità per i lavoratori di andare in pensione a qualsiasi età, purché il montante contributivo accumulato sia superiore a una certa soglia. In questo modo, si offrirebbe flessibilità a quei lavoratori che hanno già versato a sufficienza e, dunque, hanno contribuito a tenere in piedi il sistema. In un certo senso, questa soluzione esiste già con la possibilità di andare in pensione a 64 anni di età e 20 anni di contributi, purché l’assegno liquidato risulti almeno 2,8 volte il trattamento minimo. Tuttavia, in questo caso continua ad esistere la limitazione anagrafica. Perché mai con un simile assegno non potrei andare in pensione anche a 63, 62 o 60 anni?

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