Quota 102 ha rimpiazzato quota 100 da quest’anno. Serviranno almeno 64 anni di età e 38 anni di contributi per andare in pensione. In alternativa, i lavoratori italiani dovranno attendere i 67 anni di età per la pensione di vecchiaia. Esistono altre scorciatoie, come il pensionamento anticipato con 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini o 41 anni e 10 mesi per le donne. E così ancora l’Ape Social a 63 anni di età e almeno 30 anni di contributi per chi svolge alcune mansioni gravose.

E con Opzione Donna le lavoratrici possono anticipare la data della pensione di 6 mesi per ogni figlio fino a un massimo di 4 figli.

In estrema sintesi, questa è la condizione della previdenza in Italia. Una giungla di leggi tra le quali risulta difficile districarsi. E il Centro studi di Itinerari previdenziali ha aggiornato i dati con la pubblicazione del suo 9° Rapporto sul bilancio previdenziale italiano. Una cifra su tutte serva da riflessione: esistono ancora oggi 423.009 pensioni erogate a beneficiari sin dal 1980. In altre parole, parliamo di pensionati che hanno la fortuna di incassare l’assegno da ben 40 anni e oltre.

La fortuna, però, c’entra fino a un certo punto. Anzi, c’entra pochissimo. Non stiamo parlando di Matusalemme, bensì di persone andate in pensione mediamente a 40 anni di età. La media è stata di 39,7 anni per gli uomini e 42,3 anni per le donne. Sono i cosiddetti baby pensionati”, una categoria che ha mandato in malora i conti della previdenza italiana, avvalendosi di norme ad hoc studiate da una politica in cerca di facile consenso e che, soprattutto, ha pensato benissimo di rispondere così alle richieste di assistenza da parte di fasce della popolazione sofferenti.

In pensione più tardi e con assegni più bassi

Rispetto al 2020, queste prestazioni sono diminuite di quasi 80.000 unità. Superavano il mezzo milione fino a due anni fa.

L’identikit dei baby pensionati è ex dipendente del settore privato per i tre quarti dei casi con una preponderanza di donne (l’81,1% dei casi contro i restanti 19,9% nel privato e 68,3% contro 31,7% nel pubblico). Vi chiederete come sia stato possibile mandare in pensione i lavoratori già a 40 anni di età. Il fatto è che dal 1967 e fino agli inizi degli anni Novanta, il legislatore non fece che allentare le regole sulla previdenza. Con il paradosso che a fine anni Sessanta si andava in pensione mediamente a 65 anni, mentre nel 1994 si toccò il punto più basso a 54 anni.

Nel settore pubblico, ad esempio, era possibile andare in pensione per le donne con soli 14 anni 6 mesi e 1 giorno, compresi gli anni di maternità e il riscatto della laurea. Risultato: anche con meno di 10 anni di lavoro, si poteva godere dell’assegno. I colleghi uomini dovevano attendere 19 anni 6 mesi e 1 giorno. Non solo. I baby pensionati hanno goduto anche di un trattamento privilegiato sul piano del calcolo dell’assegno, interamente retributivo, anziché tendenzialmente contributivo come avviene oggi. Dunque, a fronte di una miseria di contributi versati, hanno percepito e, in molti casi, continuano a percepire ad oggi assegni cospicui.

Il mancato legame tra contribuzione ed erogazioni ha fatto saltare i conti della previdenza. Già con la riforma Dini, si è cercato di correre ai ripari attraverso l’introduzione del metodo contributivo. Negli anni, l’età pensionabile è stata allungata fino ai 67 anni per uomini e donne con la legge Fornero. Essa rimane agganciata alla speranza di vita media rilevata dall’ISTAT ogni due anni, seppure momentaneamente il meccanismo sia stato sospeso. Inoltre, il contributivo è stato esteso a una più ampia platea dei lavoratori. Con la conseguenza che i lavoratori di oggi, specie più giovani, andranno in pensione fino a 71 anni a metà secolo, percependo assegni anche del 20% più bassi rispetto all’ultima retribuzione dei loro genitori e nonni.

Una disparità di trattamento figlia di privilegi non del tutto cancellati e che hanno inciso, stando ai calcoli di Itinerari Previdenziali, per circa i due terzi del debito pubblico accumulato dopo il 1980.

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