I verbali sull’ultima riunione della BCE a settembre segnalano la crescente preoccupazione del board circa l’aumento dei prezzi al consumo nell’Eurozona. Il consiglio dei banchieri centrali si mostra intenzionata a ingaggiare una lotta all’inflazione ancora più dura, anche a costo di ridurre il tasso di crescita dell’economia. Il dato di settembre, se vogliamo, rafforza tale convinzione. L’inflazione è schizzata al 10% nell’area, a doppia cifra per la prima volta da quando esiste l’euro. Sempre questa settimana, la BCE ha pubblicato i dati sul PEPP, il programma monetario varato nel marzo 2020 per reagire alla pandemia e rimasto attivo fino al 31 marzo scorso.

Nei mesi di agosto e settembre, gli acquisti netti dei bond risultavano diminuiti di 4,32 miliardi. Ciò che colpisce, però, è che l’istituto ha venduto nel bimestre titoli di stato italiani per 1,2 miliardi di euro. Nel periodo giugno-luglio, li aveva acquistati per 9,8 miliardi netti.

Ad onor del vero, anche i Bund hanno registrato una riduzione netta di 3,1 miliardi dopo i -14,3 miliardi del bimestre precedente. Tuttavia, la tempistica si presta a letture maliziose. La BCE avrebbe cercato di restringere gli spread fintantoché a Roma vi fosse in carica il governo Draghi. Non appena questi è caduto, ha iniziato a vendere BTp, infischiandosene dei rendimenti.

In realtà, si potrebbe eccepire che proprio la lotta all’inflazione avrebbe comportato la necessità di contenere la liquidità sui mercati, riducendo marginalmente il portafoglio di asset. Tuttavia, ogni mossa della BCE si presta a interpretazioni contrapposte per la sempre minore osservanza a regole predeterminate. E questo è figlio della politica monetaria eterodossa adottata sin dal 2014, quando l’allora governatore Mario Draghi fece entrare l’istituto in acque inesplorate con i tassi negativi prima e il “quantitative easing” subito dopo.

Lotta all’inflazione tra regole opache e speculazione

Il problema è che se il mercato fiuta una possibile politicizzazione delle regole, la lotta all’inflazione non funziona come dovrebbe.

Un esempio è dato dal nuovo scudo anti-spread (TPI). Annunciato a giugno e varato a luglio, esso si rivela condizionato, discrezionale e limitato. Di fatto, l’ultima parola su tutto spetta al board BCE, che non ha alcun dovere di intervenire a sostegno di questo o quel mercato dei bond nel caso di un attacco speculativo. Questo spinge ancora oggi il mercato a scommettere contro i BTp.

Tuttavia, il frazionamento dei mercati causa quella frammentazione monetaria tanto temuta anche pubblicamente da Francoforte. Essa contrasta, infatti, con la lotta all’inflazione da perseguirsi principalmente tramite il rialzo dei tassi d’interesse. Ma se ciò provoca l’esplosione dello spread in una parte dell’area, la politica monetaria ne risulta minacciata. Dunque, l’obiettivo della stabilità dei prezzi diventa meno alla portata.

Probabile che i tempi degli acquisti e delle vendite dei BTp non c’entrino nulla con il ciclo politico italiano. Essi sarebbero legati alla necessità di contenere gli spread, accompagnata nel corso dell’estate da quella di frenare la corsa dell’inflazione. Ma l’opacità delle regole insinua il dubbio, non solo tra qualche complottista di maniera. Che la BCE avesse un debole per il suo ex governatore nei panni del premier italiano, è una certezza. Che non ami il centro-destra al potere, anche. Il rischio di politicizzare la gestione monetaria esiste. A dire il vero, esiste ovunque. Nel caso dell’Eurozona, però, si traduce nel fare gli interessi di un gruppo di paesi a discapito di un altro o di un solo paese. E ciò è tanto più grave, dato che a rischio vi sarebbe di questo passo l’unione monetaria stessa, vale a dire l’euro. Non a caso, il cambio contro il dollaro è sceso ai minimi dal 2002.

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