Era il 15 settembre del 2008, quando dall’America arriva un annuncio-choc, che avrebbe cambiato il corso della storia mondiale: Lehman Brothers ha dichiarato bancarotta. Le borse crollano, la liquidità interbancaria tende a prosciugarsi e il costo per ottenerla esplode letteralmente. E’ l’inizio della “Grande Crisi”, i cui effetti sono, purtroppo, ancora oggi visibili anche in Italia. Cosa sia successo quel giorno è storia risaputa. La banca d’affari aveva azzardato troppo, buttandosi sul mercato immobiliare con investimenti a leva eccessiva e finendo a gambe per aria dopo che i prezzi delle case avevano preso a ripiegare sull’aumento dei tassi d’interesse applicati ai mutui, molti dei quali erano stati erogati negli USA anche a soggetti poco e affatto affidabili, noti in gergo come “subprime”.

Per dirla in parole povere, gli americani avevano approfittato dei tassi quasi azzerati fino tra il 2001 e il 2004 per comprare casa anche senza averne i requisiti e le banche, anziché selezionare la clientela, avevano trovato conveniente nel breve prestare soldi a tutti e ottenere almeno un minimo guadagno, piuttosto che lasciare quel denaro parcheggiato sui conti correnti.

Perché la prossima crisi finanziaria sarebbe peggiore del 2007

Questa è la spiegazione quasi ufficiale della crisi finanziaria esplosa nel 2008. Tuttavia, non è stata l’unica ragione per la quale Lehman Brothers sia fallita. Il suo crac è stato conseguenza della perdita di fiducia del mercato verso i suoi assets. Come mai? Per capirlo, vi dobbiamo raccontare una storia, che riguarda una tipologia di contratti, i cosiddetti “pronti contro termine” (in sigla, pct), in inglese “repo”. Cosa sono? Trattasi di finanziamenti a breve termine, la cui durata varia da pochi giorni fino al massimo di un anno. In genere, non superano le 1-2 settimane. In pratica, una banca trasferisce a una controparte, di solito anch’essa finanziaria, una quantità di titoli (obbligazioni, azioni, etc.), ottenendo in cambio liquidità per un certo importo, impegnandosi a riacquistare a una scadenza prefissata gli stessi titoli a un prezzo superiore, il quale fungerà per il prestatore da tasso di interesse.

Il trucco dei repo per ingannare il mercato

I titoli trasferiti rappresentano una garanzia per il creditore e non vi è dubbio che tale contratto equivalga a tutti gli effetti a un finanziamento a breve termine. Che c’entrano i pct con Lehman Brothers? C’entrano, eccome! Era il 2001, quando i rappresentanti della banca americana studiarono i cosiddetti “Repo 105”, un contratto con cui si garantivano ai creditori interessi del 5% (da qui, il nome) sui finanziamenti ricevuti. Sin qui, nulla di anomalo. Senonché, l’istituto volle forzare le regole, pretendendo di iscrivere a bilancio la liquidità incassata con la cessione temporanea dei titoli come vendita definitiva. A quale scopo? Al solo fine di impiegare formalmente tale entrata per abbattere i debiti e presentare bilanci con leva più bassa di quella reale. Ora, poiché la legislazione americana vieta una simile pratica, Lehman Brothers non trovò alcuno studio legale così spregiudicato da avallare questo tipo di operazioni. Pertanto, si rivolse all’estero, dove l’inglese Linklaters sfruttò una falla della legge britannica, sostenendo che un repo potesse essere considerato vendita, nel caso in cui i titoli consegnati al creditore non fossero stati esattamente gli stessi restituiti da quest’ultimo al cliente finanziato.

La crisi finanziaria del 2008 sta tornando, ecco lo scenario da incubo

Siamo alle barzellette, ma accadde esattamente questo. E se nell’ultimo trimestre del 2007, Lehman aveva usato repo dal valore di 38 miliardi per abbattere i debiti, al secondo trimestre del 2008, qualche mese prima del crac, l’importo risultava lievitato a 50,38 miliardi. Sempre formalmente, la leva a fine 2007 veniva così abbassata a 16,1 da 17,8, al 30 giugno successivo a 15,4 da 17,3. L’uso distorto di questi finanziamenti avvenne per 3 volte e la banca aveva fatto ricorso a due tipologie: Repo 105 e Repo 108, quest’ultima riconoscente un tasso dell’8% sui prestiti ricevuti.

Tale liquidità riduceva le passività per pochi giorni, in corrispondenza della presentazione delle trimestrali, ma poiché si trattava solo di partite contabili, Lehman Brothers aveva subito dopo la necessità di reperire nuovi fondi reali con i quali rifinanziare le scadenze. Poiché il gioco divenne noto a tutto il mondo della finanza a stelle e strisce ed essendosi la banca esposta per complessivi 200 miliardi in repo, mentre a bilancio deteneva assets immobiliari per 54 miliardi e considerati di gran lunga sopravvalutati, nessuno volle più prestargli denaro, nemmeno quel Jamie Dimon di JP Morgan, che pure aveva lucrato parecchio dai repo. Pochi giorni prima del fallimento ufficiale, i “credit default swaps” per assicurare un bond emesso dall’istituto costavano il 6,1%, ovvero 610.000 dollari per garantire 10 milioni per 5 anni. E in 18 mesi, il prezzo delle azioni crollava da 82 a 12 dollari. In sostanza, il mercato scontava già un elevato rischio default e aveva ritirato la fiducia a una banca, che aveva fatto della finanza creativa spregiudicata il suo modus operandi, finendone schiacciata.

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