L’accordo di Meseberg tra Germania e Francia di pochi giorni fa è stato sulle riforme da presentare al Consiglio europeo sulle istituzioni comunitarie e, in particolare, l’Eurozona. La cancelliera Angela Merkel e il presidente Emmanuel Macron si sono incontrati nella cittadina del Brandeburgo, poco distante da Berlino, e hanno redatto una dichiarazione, che è andata oltre lo stretto contenuto da proporre insieme al vertice di questa settimana a Bruxelles. In esso, compare anche la riproposizione di una vecchia idea degli stati del nord e della stessa Germania, tanto che nei mesi scorsi era stata caldeggiata dall’ormai uscente ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, attuale presidente del Bundestag.

Essa riguarda le modalità con cui affrontare una crisi del debito pubblico all’interno dell’Eurozona, secondo meccanismi del tutto simili a quelli individuati per i salvataggi bancari e noti anche come “bail-in”.

Crisi debito italiano ancora più grave con paralisi politica 

Nelle intenzioni franco-tedesche, quando un paese ha problemi di sostenibilità del debito pubblico, i suoi creditori dovrebbero partecipare almeno a parte delle perdite, fossero banche, fondi, assicurazioni o semplici investitori individuali. L’assunto è semplice e persino corretto: chi ha prestato denaro dissennatamente a uno stato finanziariamente poco solido, magari allettato dai rendimenti relativamente elevati, dovrà assumersi le conseguenze delle proprie azioni e all’occorrenza essere coinvolto nelle perdite.

Il principio, tuttavia, rischia di aggravare e non di risolvere i problemi delle economie più indebitate dell’Eurozona. La ristrutturazione automatica dei debiti nell’area, qualora passasse all’esame dei governi, rischia di tradursi in un boomerang devastante per l’Italia, in particolare, che con 2.300 miliardi di euro risulta l’economia più oberata di debiti in Europa e terza in valore assoluto nel mondo. Gli investitori accoglierebbero la novità come l’avvisaglia di un default in arrivo proprio a Roma, vendendo in massa i nostri titoli di stato e provocando un’impennata dei rendimenti, che porterebbe sì alla perdita dell’accesso ai mercati finanziari e successivamente alla richiesta di ristrutturazione.

In pratica, la misura avrebbe l’effetto di una profezia auto-avverante.

Il piano pericoloso per commissariare l’Italia

Anche senza dipingere scenari estremi, il solo fatto che le future emissioni dei titoli di stato possano essere sospettate di contenere rischi concreti di ristrutturazione, ovvero di perdite in forma di taglio del valore nominale dei bond (“haircut”) e/o di allungamento delle scadenze e/o riduzione delle cedole (anche per i bond in mano alla BCE?), spingerebbe i mercati a fuggire dagli stati percepiti come meno solidi, concentrandosi su quelli forti. In concreto, assisteremmo a deflussi di capitali dalla semi-periferia e ad afflussi verso le economie “core”, ovvero ad acquisti di titoli tedeschi, olandesi, austriaci, in parte anche francesi, nonché alla vendita di italiani, spagnoli, portoghesi, greci, etc. Gli spread schizzerebbero e, anziché tendere alla convergenza, la ristrutturazione consentita automaticamente, al ricorrere di precise condizioni, porterebbe a un ampliamento delle già forti divergenze finanziarie, insomma a una ulteriore frammentazione dei mercati.

La ristrutturazione del debito pubblico italiano è diventata un’opzione reale

E allora, due le ipotesi: o Francia e Germania non si rendono conto della portata delle loro proposte o riterrebbero ormai inevitabile un default dell’Italia e vorrebbero adottare meccanismi in grado di consentire la ristrutturazione ordinata del nostro immenso debito pubblico, rendendo possibile la permanenza nell’Eurozona e senza giungere a sconquassi anche sul piano politico, oltre che finanziario. Pura utopia, come ci insegna la recente storia sul “bail-in”. Quando l’ipotesi di salvataggi a carico degli investitori privati divenne uno spettro credibile dalla fine del 2015, i titoli bancari arrivarono a perdere quasi il 60% del loro valore in appena 7-8 mesi a Piazza Affari.

Le banche più gravate dai crediti deteriorati finirono a gambe per aria, tra cui MPS, che dovette essere nazionalizzata, bruciando decine di miliardi di ricapitalizzazione degli anni precedenti.

Le mani anche sulle banche italiane

Nel caso dell’Italia, si scatenerebbe un “sell-off” così ingente dei nostri BTp, che i rendimenti esploderebbero e il Tesoro, a meno che la ristrutturazione gli consenta di azzerare il fabbisogno finanziario a breve, sarebbe costretto a chiedere aiuto a quel Fondo Monetario Europeo di probabile futura istituzione, che sempre Francia e Germania a Meseberg (coincidenza?) hanno previsto in soccorso delle economie in crisi e come alternativa al Fondo Monetario Internazionale, ormai al limite delle sue capacità nella gestione delle crisi europee. In sostanza, a voler essere maligni, Merkel-Macron avrebbero trovato la soluzione a un problema che essi stessi vorrebbero far esplodere, magari nell’intento (positivo) di tagliare la testa al toro dopo troppi anni passati a discutere più o meno apertamente del caso Italia e della minaccia per il futuro dell’Eurozona derivante dalla sua montagna di debiti.

Peccato che i due paesi abbiano dimostrato di essere tutto, fuorché capaci di gestire o anticipare alcuna crisi. In fondo, quella dei debiti sovrani è stata provocata proprio dall’attendismo, nonché dal dilettantismo con cui tedeschi e francesi, in particolare, hanno affrontato la situazione in Grecia e subito dopo hanno giocato con lo spread italiano. Nel migliore dei casi, il duetto franco-tedesco avrebbe disegnato un futuro di commissariamento per l’Italia. Come vi abbiamo avvertito in un altro articolo, i due leader hanno pure concordato sulla necessità di introdurre un tetto del 5% per i crediti deteriorati delle banche europee, consapevoli che quelle italiane ne posseggano volumi più che doppi rispetto a tale soglia e che, quindi, finirebbero per dover richiedere sul mercato decine di miliardi per ricapitalizzarsi, scatenando una nuova crisi dei titoli in borsa. In più, si consideri che i nostri istituti hanno ancora in pancia sui 340 miliardi di titoli tricolori e salterebbero in aria alla sola ipotesi di una ristrutturazione resa possibile in via automatica da un eventuale cambio di impostazione politica nell’area.

Che forse a qualcuno convenga in giro per l’Europa comprarsi le nostre banche per pochi spiccioli, allettati da quegli oltre 1.700 miliardi di euro di risparmi, frutto della capacità degli italiani di fare le formiche anche nei momenti di difficoltà? E che le potenziali tensioni bancarie siano il pretesto per giungere anche alla “messa in sicurezza” del nostro debito sovrano? Attenzione ai colpi di coda di Berlino e Parigi. Merkel e Macron appaiono a tutti gli effetti due liquidatori fallimentari, non certo due manager a cui affidare le sorti di rinascita della nostra Nazione.

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