Nel 2022, le banche centrali di tutto il mondo hanno acquistato 1.136 tonnellate di oro, dato record dal 1967 e pari a un controvalore di circa 70 miliardi di dollari. Ma gli acquisti non sono stati omogenei, avendo riguardato particolarmente gli istituti in Asia. Una corsa all’oro che si spiegherebbe difficilmente, stando al modo di ragionare imperante nell’Occidente, dove assegniamo oramai da decenni più importanza alla finanza, spesso “creativa”, che non agli asset fisici. Se, invece, ci sforzassimo di guardare le cose con gli occhi a mandorla, vedremmo un mondo molto differente.

Le mani sull’oro possono avviare la fine del sistema dei “petrodollari” su cui gli Stati Uniti fondano buona parte della loro ricchezza.

Da Bretton Woods ai petrodollari

Dobbiamo necessariamente fare un salto indietro nel tempo di oltre mezzo secolo. Siamo nel 1971 e alla Casa Bianca vi è il presidente Richard Nixon, che si ritrova a gestire un’economia americana oberata dai debiti, a causa principalmente della costosa macchina da guerra. Sin dal 1944 era in vigore il sistema monetario di Bretton Woods, secondo cui le valute del blocco occidentali erano ancorate al dollaro da un cambio fisso. A sua volta, la valuta americana era ancorato all’oro ad un tasso di convertibilità di 35 dollari per oncia. Nixon dovette dichiarare di non essere più in grado di garantire tale convertibilità. Il pianeta attraverso una lunga fase di caos valutario. Alcune divise come la lira italiana collassarono e, complici le due crisi petrolifere negli anni Settanta, i tassi d’inflazione esplosero.

Ma gli Stati Uniti non rimasero con le mani in mano. Accompagnato dal fido consigliere Henry Kissinger, oggi un arzillo uomo di 100 anni, Nixon volò in Arabia Saudita per incontrare Re Faisal. I due capi di stato strinsero un accordo: Washington avrebbe garantito la sicurezza militare del regno e Riad avrebbe imposto ai clienti di pagare le forniture di petrolio solo in dollari.

Poiché già allora era la prima esportatrice di greggio nel mondo, la mossa ebbe l’effetto di fissare un “benchmark” sui mercati e di assicurare una solida domanda di valuta americana.

Vacilla accordo Washington-Riad

Ciò consentiva agli Stati Uniti di continuare a godere di un cambio forte, così come anche di beneficiare di bassi tassi d’interesse con cui indebitarsi. Restando grazie a tale marchingegno valuta di riserva mondiale, il dollaro sostenne e continua a sostenere gran parte del benessere degli americani. Essi possono ottenere capitali a bassissimo costo nel settore privato come nel pubblico.

Questo accordo sui cosiddetti “petrodollari” ha retto per circa mezzo secolo. Già nel 2018 la Cina lanciava il suo primo contratto future sul petrolio in yuan. Esperimento apparentemente fallimentare sino ad oggi. Qualche mese fa, il quadro ha iniziato a mutare. Frustrato dallo scarso interesse mostrato dalla Casa Bianca verso la sicurezza saudita dagli attacchi dei ribelli yemeniti e dalle minacce iraniane, il regno ha aperto ai pagamenti in yuan del petrolio esportato in Cina. Un crescente numero di stati in Asia sta stringendo accordi bilaterali tra loro e con la Cina per regolare gli scambi in valute locali e non più in dollari.

Oro vero safe asset

Per picconare il dollaro, ce ne corre. Tuttavia, è chiaro che gli Stati Uniti dovranno inventarsi qualcosa come nel ’71 per non restare travolti dal nuovo ordine mondiale che avanza. Anziché trovare nuovi escamotage, la soluzione sarebbe sotto gli occhi. La corsa all’oro in Asia rimarca come le economie emergenti puntino a dare vita a un sistema monetario globale in cui a contare è la garanzia fisica del safe asset per eccellenza. Basta più fare affidamento sui T-bond, che altro non sono che titoli del debito americano, cioè passività e non ricchezza.

E’ vero che l’Occidente guida ancora la classifica delle banche centrali con le maggiori riserve di oro. L’Italia è terza con 2.451,8 tonnellate, preceduta solo da Germania (3.381) e Stati Uniti (8.133,5). Resta il fatto che non conosciamo i dati reali della Cina, ufficialmente saliti quest’anno a 2.010,51 tonnellate dopo essere rimaste invariate per oltre sette anni. Ma, soprattutto, dovremmo considerare che i cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) insieme controllano il 30% della produzione mondiale di oro. Se teniamo conto anche degli stati già schierati con questo blocco o che ne subiscono la crescente influenza o ancora non allineati all’Occidente, arriviamo a circa il 62%.

Fine dei sogni d’oro americani

Dunque, se l’Occidente volesse mantenere il primato nell’ambito finanziario correndo a comprare oro, rischierebbe di trovarsi la strada sbarrata dal blocco sino-russo. Così come sta accadendo per altre materie prime, l’oro diverrebbe fonte di tensione con Stati Uniti ed Europa. Un sistema monetario che tornasse a reggersi sulle riserve auree vedrebbe in grave difficoltà le grandi economie importatrici. Viceversa, esso favorirebbe paesi come Cina, Australia e Russia, le cui estrazioni primeggiano nel pianeta. C’è da dire che con quasi 400 tonnellate all’anno estratte in tutto, Stati Uniti e Canada troverebbero il modo di arrangiarsi, l’Europa no.

In ogni caso, Zio Sam perderebbe il “privilegio esorbitante” di stampare l’unica moneta desiderata da tutto il mondo per la sua estrema stabilità. Il suo cambio s’indebolirebbe, generando inflazione. E il costo del denaro s’impennerebbe, ponendo fine a decenni di capitali presi in prestito a tassi infimi e al sogno americano alimentato a colpi di debiti.

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