In tanti la definiscono “guerra dei chip” e l’unica consolazione per il momento è che non si stia combattendo con le armi. Per il resto quella in corso tra Cina (e non solo) e il cosiddetto Occidente è uno scontro che rischia di avere conseguenze gravi anche su piani diversi dall’economia, perlomeno nel breve termine. Questa settimana, Pechino ha annunciato una stretta alle esportazioni di gallio e germanio. In pochi all’infuori degli addetti ai lavori probabilmente ne avevano sentito parlare prima, eppure si tratta di due elementi chimici di fondamentale importanza per l’industria dei semiconduttori.

Sono impiegati nella produzione di dispositivi elettronici, pannelli fotovoltaici, televisori, ma soprattutto il germanio trova uso anche nella produzione di farmaci contro i tumori e di quelli somministrati ai malati di AIDS.

Contraccolpi su inflazione e salute

Senza alcuna ironia di sorta, possiamo affermare che la guerra dei chip rischi di provocare danni alla salute. Perché la Cina detiene la produzione del 94% del gallio e dei due terzi del germanio. Se scriteriatamente il suo presidente Xi Jinping decidesse di arrestarne le esportazioni, la prima conseguenza sarebbe di impedire a milioni di cittadini di tutto il resto del pianeta di curarsi appropriatamente. Nel migliore dei casi, i prezzi di molteplici prodotti e di numerosi farmaci saliranno nei prossimi mesi. E questa è una cattiva notizia sempre, ma lo diventa in maniera particolare quando già le banche centrali sono in affanno per contrastare l’alta inflazione a colpi di drastici aumenti dei tassi d’interesse.

La buona notizia è che gallio e germanio non sono elementi che si trovano puri in natura, in quanto si ricavano da altri. In particolare, il gallio si ottiene in piccole quantità da bauxite, carbone, diaspro, germanite e sfalerite. Il germanio si ricava perlopiù anche in metalli come argento e zinco. Questo significa che la loro produzione può aversi all’infuori della Cina, ad esempio trattando i materiali di scarto.

Ma ci vorrà verosimilmente tempo per giungere a livelli di produzione che siano capaci di compensare le minori esportazioni cinesi. Pur non trattandosi di quantità elevate – la produzione globale di gallio nel 2021 fu di 372 tonnellate e quella di germanio di 80 tonnellate – la ricerca di alternative non sarebbe così immediata.

Ritorsione cinese contro USA-Europa

Insomma, il nuovo capitolo della guerra dei chip porterebbe a una carenza di semiconduttori come nel biennio 2021-2022, quando i prezzi di numerosi beni di consumo esplosero proprio per la scarsa offerta disponibile. Ancora oggi, tanto per fare un esempio, i tempi di attesa per un’auto nuova sono di mesi, in qualche caso di un anno. Ma a cosa si deve questa misura draconiana della Cina? Nei giorni scorsi, gli Stati Uniti annunciarono lo stop delle esportazioni di manifattura avanzata per i chip verso l’economia asiatica. E l’Olanda bloccava le esportazioni di apparecchiature prodotte dal colosso nazionale Asml, che nei fatti detiene il monopolio di alcune fasi per la produzione di semiconduttori.

Europa e Stati Uniti stanno cercando di allentare la dipendenza dalla Cina e allo stesso tempo di rallentarne il progresso tecnologico, ad oggi inferiore rispetto al nostro. Non sfugga un altro annuncio di questi giorni. Arabia Saudita e Russia hanno reso noto un ennesimo taglio alla produzione di petrolio. Nel dettaglio, Riad estende il suo da 1 milione di barili al giorno per il mese di agosto e Mosca ridurrà le sue esportazioni di mezzo milione di barili al giorno. In apparenza, una mossa del tutto slegata da quella cinese. In parte, lo è. L’OPEC+ sta disperatamente cercando da mesi di risollevare le quotazioni internazionali del greggio, le quali sembrano essere cadute sotto la soglia dei 75 dollari in maniera piuttosto stabile.

Guerra chip legata a petrolio OPEC+

In realtà, il fronte russo-saudita è tutt’altro che indifferente alla Cina. Insieme vanno componendo un blocco geopolitico che sinteticamente e oramai anche erroneamente definiamo dei BRICS. Parliamo di grandi economie, dalla stessa Cina all’India, dal Brasile al Sudafrica, passando per Russia e ora Arabia Saudita, ecc., detentrici di materie prime. L’Occidente ne è complessivamente privo, pur abbondando di capitali e di tecnologie avanzate. I BRICS hanno nei fatti dichiarato una guerra dei chip all’indomani della pandemia, con l’intento di far capire al blocco rivale che senza le loro materie prime non andrà da nessuna parte. Non a caso il presidente americano Joe Biden nei giorni scorsi si era detto disponibile a un’intesa con Pechino, tanto da avervi inviato il suo segretario di Stato, Antony Blinken, a colloquio con Xi.

Gli Stati Uniti non stanno cercando di recidere del tutto i legami commerciali e finanziari con la Cina, consapevoli che avrebbe un impatto dolorosissimo sulla loro economia. Punta a tenere inalterate le distanze sul piano tecnologico, un fatto che Pechino teme. Solo recuperando il gap sarebbe nelle condizioni entro qualche decennio di primeggiare nelle produzioni ad alto valore aggiunto e di rivaleggiare alla pari con Washington sul piano militare. La guerra dei chip rallenterebbe anche la transizione energetica dell’Occidente, perché auto elettriche, pannelli fotovoltaici, pale eoliche non si potrebbero costruire senza le materie prime prodotte in altre aree della Terra. Il messaggio di Xi appare chiaro: o troviamo un accordo o ci facciamo male tutti.

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