In occasione della pubblicazione della seconda edizione di “Investire in materie prime”, abbiamo intervistato il suo autore: Maurizio Mazziero, analista finanziario ed esperto in materie prime.

Il suo libro fornisce elementi essenziali per affacciarsi al mondo del trading in “commodities”. Quanto conta la conoscenza degli aspetti macroeconomici, anche dal punto di vista storico?

Sono convinto che la comprensione degli aspetti macroeconomici giochi un ruolo fondamentale, anche se a livelli differenti a seconda delle materie prime. Energia come petrolio e gas vedono aumentare la domanda proprio in funzione delle fasi di crescita o rallentamento delle economie mondiali, al tempo stesso queste due materie prime sono soggette anche a fattori climatici e agli equilibri geopolitici fra le sfere di influenza globale, in particolare Stati Uniti e Cina.

I metalli industriali seguono le fasi di espansione economica, in particolare il rame tende ad anticipare una fase di ripresa, tanto da essere soprannominato dott. Copper, la materia prima laureata in economia.

Le materie prime sono considerate generalmente molto più attinenti ai fondamentali del mercato rispetto agli asset prettamente finanziari. E’ davvero così o la speculazione, specie nel breve termine, può giocare un ruolo preponderante nell’incidere sulle dinamiche dei prezzi?

La speculazione può influenzare i prezzi delle materie prime, ma di solito ha un impatto di breve termine. Nel medio e lungo periodo, sono gli equilibri di domanda e offerta che prevalgono. È importante ricordare che questi mercati sono stati creati per soddisfare le esigenze degli operatori fisici che effettivamente possiedono la materia prima e conoscono i costi di produzione. Questi operatori costituiscono la cinghia di trasmissione tra mercato fisico e finanziario.
Capisco che questa affermazione potrebbe sollevare delle obiezioni, poiché spesso si fa riferimento a manipolazioni speculative. Tuttavia, attribuire la colpa unicamente alla speculazione è come dare la colpa ai mulini a vento senza comprenderne appieno il funzionamento.

Nell’ultimo anno le banche centrali hanno aumentato drasticamente i tassi d’interesse per combattere livelli d’inflazione che non si vedevano dagli anni Ottanta. Una grossa parte degli economisti si è mostrata scettica sull’efficacia della stretta monetaria, sostenendo che l’inflazione sia stata generata da una carenza di offerta e non da un eccesso di domanda. Lei vede una correlazione tra tassi e prezzi delle materie prime?

Certamente esistono legami tra i tassi di interesse e i prezzi delle materie prime, ma è importante notare che i tassi di interesse sono spesso una conseguenza dell’andamento dei prezzi delle materie prime, piuttosto che la causa. In altre parole, l’aumento dei prezzi delle materie prime è la manifestazione di un disequilibrio tra l’offerta e la domanda, che può essere causato da una diminuzione dell’offerta o da un aumento della domanda.

Nel periodo successivo alla pandemia, entrambi questi elementi si sono manifestati contemporaneamente. Durante i lockdown, abbiamo assistito senza dubbio a una diminuzione della domanda, ad esempio nel settore dei combustibili per il trasporto aereo, ma abbiamo anche riscontrato interruzioni nelle catene di approvvigionamento che hanno portato alcuni operatori a uscire dal mercato, determinando una carenza di offerta. Successivamente, gli aumenti dei prezzi delle materie prime tendono a propagarsi all’interno dell’economia, creando una spirale difficile da arrestare. Ad esempio, un aumento dei prezzi dei carburanti in Italia può influenzare l’intera catena di approvvigionamento poiché molti beni vengono trasportati su strada. Ciò porta ad un aumento dei costi di produzione, sia nell’industria manifatturiera che nei servizi.

Tuttavia, tornando al tema centrale della domanda, l’aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti rientra nelle normali misure monetarie, volte anche a ridurre l’eccessiva liquidità presente nell’economia. Tale aumento dei tassi potrebbe essere meno appropriato nell’Eurozona, poiché l’inflazione è stata indotta non dalla domanda, ma dai costi elevati dell’energia e dalla forza del dollaro.

In questo contesto, l’aumento dei tassi di interesse della Banca Centrale Europea ha lo scopo principalmente di limitare una possibile rafforzamento del dollaro.

E’ inevitabile una domanda sulla materia prima forse per eccellenza: il petrolio. L’OPEC ne ha tagliato l’offerta per la seconda volta in due mesi e per complessivi 2 milioni di barili al giorno. Non è un segnale di debolezza per la congiuntura globale? Come mai le quotazioni internazionali stanno ripiegando da mesi, nonostante l’Europa abbia schivato la crisi dell’energia e gli Stati Uniti restino in crescita?

È indubbiamente un segnale di debolezza per l’economia globale, soprattutto nell’Asia e in particolare in Cina, dove la crescita non è più ai livelli del passato. Nonostante ciò, ci si aspettava che un taglio nella produzione dell’OPEC rafforzasse i prezzi del petrolio; tuttavia, ciò non è avvenuto. La realtà è che siamo letteralmente sommersi dal petrolio proveniente dall’Iran e dalla Russia, che arriva sui mercati occidentali attraverso triangolazioni e flotte di navi ombra. Ad esempio, il petrolio russo viene raffinato in India e i suoi distillati raggiungono comunque l’Europa. Inoltre, l’Arabia Saudita acquista petrolio russo per il mercato interno, liberando così quote di produzione nazionale per l’esportazione, ottenendo un guadagno netto di quasi 20 dollari al barile.

Tuttavia, se nel secondo semestre di quest’anno ci sarà una ripresa in Cina, potrebbe verificarsi una carenza di un milione di barili al giorno, e ciò inizierà a influire sui prezzi. La domanda crescente potrebbe far sentire la sua presenza, creando pressione al rialzo sui prezzi del petrolio.

La crisi del gas è stata forte concausa del boom dell’inflazione in Europa. Dopo l’esplosione dei prezzi nel 2022, a causa delle tensioni tra Russia e Vecchio Continente con l’invasione dell’Ucraina, adesso questi si sono riportati nel range storico pre-crisi. Possiamo affermare di avere vinto “la guerra del gas” contro la Russia o sono possibili nuove fiammate dei prezzi nei prossimi mesi?

Abbiamo superato la prima fase di emergenza, ma ora dobbiamo affrontare la sfida di diventare strutturalmente indipendenti dal gas russo.

Il rischio è di diventare dipendenti da altri fornitori che attualmente sono affidabili, ma potrebbero non esserlo in futuro, proprio come lo era la Russia prima del conflitto. Attualmente, l’Algeria è il principale fornitore di gas per l’Italia, ma ha una stretta partnership con Mosca. Inoltre, il gasdotto che passa attraverso la Tunisia per arrivare a Mazara del Vallo è esposto al rischio di instabilità economica nel paese e potrebbe richiedere condizioni particolari per il transito del gas in futuro.

D’altra parte, il flusso di gas proveniente dal Nord Europa sta diminuendo sia dalla Norvegia sia dall’Olanda. L’Olanda, a causa dei terremoti, ha dichiarato l’intenzione di chiudere Groningen, il più grande giacimento di gas in Europa. L’Azerbaijan, che invia il suo gas attraverso un gasdotto a Melendugno, in Puglia, è spesso coinvolto in conflitti armati con l’Armenia nella regione del Nagorno Karabakh.

In un contesto del genere, diventa evidente che la diversificazione dell’approvvigionamento può avvenire solo tramite rigassificatori. Tuttavia, questa soluzione non è esente da criticità, poiché è influenzata dai prezzi dei noli delle navi gasiere e può causare ingorghi nei terminali di carico e scarico. A lungo termine, il mercato si stabilizzerà, ma l’esperienza ci ha insegnato che ogni Stato deve implementare il proprio programma di sviluppo. Pertanto, dovremmo concentrarci sulla creazione di più punti di rigassificazione in tutto il paese, incluso l’utilizzo di navi FRSU come quelle che presto inizieranno a operare a Ravenna e, se il TAR lo permetterà, a Piombino.

L’oro è stato accantonato dalle banche centrali dell’Occidente come asset d’investimento negli ultimi decenni. In Asia, invece, ne fanno incetta da anni e come mai prima. Stiamo assistendo al trasferimento del “bene rifugio” per eccellenza da Ovest ad Est? E con quali conseguenze macroeconomiche nel medio-lungo periodo?

In primo piano si delinea una battaglia per liberarsi dal potere commerciale del dollaro da parte delle economie emergenti. Sebbene la de-dollarizzazione sia ancora più un motto che un fattore determinante negli scambi commerciali di oggi, la tendenza è chiara.

Saranno necessari ancora diversi anni, forse un decennio, prima che il volume degli scambi in valute diverse dal dollaro raggiunga una massa critica. Potremmo assistere all’adozione di paniere di valute simili ai diritti speciali di prelievo del FMI, ma a quel punto potrebbe essere troppo tardi. Le grandi economie, come la Cina, che si stanno ancora più estendendo rispetto a quanto conosciamo oggi, potrebbero rivolgersi agli Stati Uniti dicendo: “Noi siamo supportati dall’oro, mentre tu stampi moneta a piacimento e crei debito come se non ci fosse un domani. La tua valuta ha perso legittimità e crea un vantaggio improprio per gli Stati Uniti. Da domani, gli scambi commerciali non saranno più regolati in dollari, ma nella nostra valuta”. Questo rappresenterà il colpo finale, spostando il baricentro verso l’Oriente e dando inizio a una nuova fase storica, come già accaduto in passato.

Il rapporto tra rame e oro (“copper-gold ratio”) è indicativo delle prospettive di crescita globali, nonché segnala una forte correlazione con l’andamento dei tassi. Ultimamente, è sceso ai minimi da due anni e segna un trend divaricante rispetto al rendimento decennale americano. Cosa significa?

Ho un punto di vista un po’ controcorrente su questo argomento. Personalmente, non vedo particolare utilità nell’analizzare questi due metalli come un unico rapporto, poiché le dinamiche produttive e i fattori determinanti dei prezzi sono differenti. Pertanto, preferisco considerare l’oro e il rame separatamente.

L’oro è spinto principalmente dall’instabilità dei mercati finanziari e dall’inflazione, mentre viene penalizzato dall’aumento dei tassi reali, dei rendimenti obbligazionari e dalla forza del dollaro. È considerato un bene rifugio in periodi di incertezza economica.

D’altra parte, il rame è influenzato dalle fasi di crescita o recessione nell’economia, poiché viene ampiamente utilizzato nell’industria e nella costruzione. Inoltre, la domanda di rame è sempre più correlata alla crescita dello stoccaggio di energia, in particolare con la costruzione di batterie.

Quindi, ritengo che sia più utile analizzare l’oro e il rame separatamente, considerando i rispettivi fattori che li influenzano.

L’Occidente ha mercati finanziari sviluppati, ma dispone di scarse materie prime. I famosi BRICS, intesi in senso lato, dispongono di minori capitali, mercati meno liquidi, ma al contempo di abbondanti materie prime. Siamo interdipendenti alla pari o uno dei due blocchi sarà sempre più alla mercé all’altro? Ogni riferimento alla transizione energetica è voluto.

Sebbene alcune nazioni occidentali, come il Canada, gli Stati Uniti e l’Australia (che fa parte del blocco occidentale), siano ben fornite di materie prime, la maggior parte delle risorse di base necessarie per la transizione energetica si trova in altri paesi. I paesi del BRICS e molti altri paesi legati a loro attraverso sfere di influenza saranno quelli che trarranno vantaggio dai futuri megatrend, esercitando un ruolo geoeconomico strategico che potrebbe entrare in conflitto con l’Occidente.

Muoversi verso una transizione energetica è di fondamentale importanza per il futuro del nostro pianeta, ma in alcuni casi gli annunci, come ad esempio quelli dell’Unione Europea, sono stati troppo drastici. Si sono limitati gli investimenti nello sviluppo di risorse di combustibili fossili senza assicurarsi preventivamente le risorse di base necessarie per attuare completamente questa transizione. È stato certamente un piano di marketing interessante, ma probabilmente sarà necessario dilatarlo nel tempo per raggiungere gli obiettivi prefissati.

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