Annuncio shock di Elon Musk nelle scorse ore via Twitter: Tesla non accetterà più Bitcoin in pagamento. Motivo? E’ una “criptovaluta” ad alto impatto ambientale. Un’inversione a U in pochi mesi della società di auto elettriche, che lascia sbigottito il mercato. E’ il “greenwashing”, bellezza. Parliamo di una pratica sempre più diffusa, che fa leva sulla credulità degli investitori individuali per impressionarli con una svolta pseudo-ambientalista e a favore della sostenibilità.

Procediamo con ordine. Lo scorso anno, nel mondo sono stati emessi “green bond” per 270 miliardi di dollari.

Se allarghiamo lo sguardo a tutti i bond ESG, cioè che puntano alla sostenibilità anche sociale e dei diritti, arriviamo a 732 miliardi, +29% in un anno. E’ un mercato in fortissima crescita, grazie all’ingresso degli investitori istituzionali. Questi acquistano o emettono essi stessi debito formalmente vincolato a finanziare iniziative a favore dell’ambiente, come il taglio delle emissioni inquinanti, o a protezione dei diritti dei lavoratori in aree arretrate del pianeta, come in Africa.

Fatto sta che questa improvvisa svolta sociale della finanza mondiale risulta da tempo sospetta. Sul mercato si parla di “greenwashing”, ovvero la pratica che consiste nell’annacquare le finalità ambientali e, più in generale, ambientali. Nella pratica, accade semplicemente che una società emetta debito green o ESG, fissando obiettivi che non saranno né raggiunti, né mai ambiti realmente. Due le ragioni di questa presa in giro a tutti gli effetti: rifinanziarsi a costi relativamente bassi, facendo leva sulla sensibilità del mercato e strizzare l’occhio a quest’ultimo segnalandogli una svolta a favore della sostenibilità del business.

Due casi di “greenwashing”

Insomma, pura e semplice pubblicità pagata dagli stessi obbligazionisti. E Tesla è forse il caso recente più clamoroso in tal senso. Tra gennaio e febbraio, comprò Bitcoin per 1,5 miliardi di dollari. Entro marzo ne vendette un decimo, realizzandoci guadagni per 101 milioni di dollari e riuscendo così a chiudere la trimestrale con un utile netto di 438 milioni.

In sostanza, ha abbellito i suoi bilanci per rinnegare subito dopo la promessa di accettare in pagamento dai clienti Bitcoin. Perché? Ha “scoperto” solo adesso che il “mining” avviene attraverso l’utilizzo di una quantità enorme di energia (circa quanto i consumi annuali del Pakistan o della Svezia). E poiché circa i due terzi di esso è realizzato in Cina, dove la metà dell’energia elettrica è ancora fornita dalle centrali a carbone, si sospetta che Bitcoin sia una fonte di inquinamento.

Inaccettabile per una società come Tesla, che si è fatta un nome puntando proprio sul business “pulito” delle auto elettriche. Da qui, lo stop. Ma è pura ipocrisia. Del possibile nesso tra Bitcoin e inquinamento si discute da anni. E la società ha precisato che terrà a bilancio la “criptovaluta” sulla quale ha investito. Come mai? Semplice: da quando ha effettuato l’investimento, le quotazioni si sono impennate. Può confidare di rivendere in futuro i Bitcoin a valori molto più alti, maturando una plusvalenza finanche miliardaria. Ma non s’era detta che si tratti di un business sporco e cattivo? Pecunia non olet, dicevano quei fantasiosi dei latini.

Tesla non è un caso isolato di “greenwashing”. Un caso al limite del comico lo si è avuto in queste settimane con BlackRock, principale fondo obbligazionario al mondo, anch’esso inevitabilmente con il cuore devoto all’ambiente e alla sostenibilità della finanza. Ebbene, per un eccesso di zelo, ha appoggiato la causa avviata da un comitato di azionisti contro Procter & Gamble in relazione all’acquisto di forniture di olio di palma da parte di Astra Agro Lestari.

A rischio credibilità del mercato ESG

Questa è una società che fa parte del conglomerato indonesiano Astra International e viene accusata di non rispettare criteri minimi ambientali nella produzione di svariati prodotti, tra cui l’olio di palma.

Anche più grave, si macchierebbe dell’odioso “land grabbing”, l’espropriazione delle terre ai contadini locali.

Ebbene, è risultato che BlackRock stessa sia terza azionista di Astra con una partecipazione di 350 milioni di dollari. Dunque, ha sostenuto la causa degli azionisti di Procter & Gamble contro la loro stessa società per un business “sporco” di cui sarebbe responsabile. Un “harakiri” commesso probabilmente nella speranza che l’opacità delle detenzioni azionarie non facesse mai emergere a galla l’ipocrisia. Peraltro, solamente a gennaio sempre BlackRock veniva accusata dalle ONG Reclaim Finance e Urgewald di investire in attività legate al carbone per ben 85 miliardi di dollari.

Ora, sarebbe un torto trovare capri espiatori, così come di generalizzare facendo di tutta un’erba un fascio. Esistono senz’altro fondi e società attivi nel mercato ESG, i quali perseguono realmente obiettivi di sostenibilità. Ad esempio, il fondo sovrano norvegese, pur alimentato dai proventi petroliferi, ha di recente pubblicato una “lista di esclusione”, nella quale rientrano tutte le società legate in un qualche modo ad attività considerate non sostenibili. E che lo facciano per convinzione o per fare business, poco importa. Rileva che vi siano capitali sempre più massicci a finanziare iniziative per abbattere emissioni inquinanti e a sostegno di altre finalità sociali. Ma il “greenwashing” resta una macchia che pesa sul mercato ESG, rendendolo poco credibile e persino fastidioso agli occhi degli investitori più consapevoli.

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