C’è un elefante che si aggira all’interno di una cristalleria: è il deficit pubblico italiano. Per quest’anno l’asticella è stata abbassata al 4,4% del Pil dal 7,2% a cui il disavanzo fiscale si è attestato l’anno scorso. E gli effetti del Superbonus sui conti dello stato non lasciano presagire granché di buono. Solamente nel settembre scorso, in sede di aggiornamento del Def, il governo Meloni aveva alzato l’obiettivo dal 4,5% al 5,3%. Lo sforamento è stato di circa due punti percentuali, del tutto inatteso.

Di manovra correttiva non c’è alcuna ufficialità. L’esecutivo nega, anche se il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, dà per scontata la procedura d’infrazione della Commissione europea contro l’Italia per deficit eccessivo.

Deficit pubblico, torna il Patto di stabilità

Con il ritorno in vigore del Patto di stabilità, pur nella versione rivisitata sulla quale i governi comunitari si accordarono nel dicembre scorso, la riduzione del deficit pubblico sotto il limite del 3% del Pil appare un percorso obbligato. Il governo italiano ha scritto nero su bianco nel Def 2024 che il 3% sarà raggiunto al 2026. L’anno successivo scenderebbe al 2,2%. Ma siamo nel 2024 e per l’anno prossimo si prevede ancora un pesante 3,7%. Tanto per un Paese con un debito pubblico che viaggia a poco meno del 140% del Pil.

A preoccupare i mercati non dovrebbe essere più di tanto il Patto di stabilità. Comunque la si racconti, non sono mai esistiti e non esisteranno nemmeno in futuro automatismi per i quali uno stato dell’Unione Europea rischia sanzioni per avere infranto le regole sul deficit pubblico. Viceversa, può ben accadere che un governo riceva una tirata di orecchie ufficiale anche con conti pubblici migliori rispetto agli obiettivi del Patto. Ricordate le liti furibonde tra Roma e Bruxelles nel 2018? Tutto per uno zero virgola di deficit pubblico in più o in meno.

Stupidità massima da entrambe le parti, visti gli effetti nefasti sui mercati finanziari.

Scudo anti-spread, primo vero test in arrivo

Gli investitori dovrebbero, invece, fare attenzione alla Banca Centrale Europea (BCE). A giugno, salvo inciampi, inizierà a tagliare i tassi di interesse. Scenderanno di almeno tre quarti di punto percentuale entro l’anno, stando alle previsioni del mercato. Questa è una buona notizia per un Paese molto indebitato come l’Italia. Emettere titoli di stato sarà un po’ meno costoso, anche se già i rendimenti prezzano da tempo il taglio dei tassi. Il problema è un altro. Nel luglio di due anni fa, in coincidenza con l’avvio dell’aumento dei tassi, l’istituto varò il Transmission Protection Instrument (TPI), noto alle cronache più popolarmente come “scudo anti-spread”.

Più che uno scudo, un atto di buona volontà. Il meccanismo di tutela dei titoli di stato oggetto di speculazione “ingiustificata” risulta essere non automatico, condizionato e limitato. La sua attivazione ufficialmente dovrebbe essere richiesta dal governo e l’accettazione del board passerebbe per il rispetto di una serie di condizioni e l’implementazione avverrebbe compatibilmente agli obiettivi ordinari di politica monetaria. Tra le condizioni richieste vi è l’assenza di una procedura d’infrazione per deficit eccessivo a carico dello stato emittente i bond. Come abbiamo sopra accennato, tra qualche mese l’Italia e numerosi altri partner dell’Eurozona, tra cui la Francia, vi saranno soggetti.

Mercati incerti dinnanzi alla procedura d’infrazione

Dunque, succede che i mercati si ritrovano dinnanzi a uno scenario incerto. Molti investitori istituzionali si staranno chiedendo se i BTp saranno anche nel prossimo futuro protetti dallo scudo della BCE. Esso non è mai stato attivato, ma la sua sola entrata in vigore sembra essere servita per placare le vendite speculative ai danni dei titoli di stato più deboli.

Da Francoforte è stato precisato che la sottoposizione alla procedura d’infrazione per eccesso di deficit sarebbe una “condizione alternativa”. Parole del governatore Christine Lagarde, corroborate da una fonte dell’istituto per cui nessuno stato sarebbe escluso dal TPI per il solo fatto di essere sotto infrazione.

Fatto salvo questo ragionamento, ciò non significa che con i conti pubblici possiamo fare quello che vogliamo senza infrangere le condizioni del TPI. Una volta che sarà formalizzata la procedura d’infrazione, l’Italia dovrà in un qualche modo rassicurare Bruxelles circa la riduzione del deficit. Il fatto è che nello stesso Def emerge che non scenderemmo sotto il 3% prima del 2027. E nel frattempo il rapporto debito/Pil salirà per stessa ammissione del governo dal 137,3% del 2023 al 139,8% del 2026. Per il Fondo Monetario Internazionale andrebbe molto peggio: debito pubblico al 144,9% nel 2029.

Taglio del deficit pubblico con manovra correttiva

Più che il deficit pubblico, i commissari guardano con più preoccupazione al rapporto tra debito e Pil per valutarne la sostenibilità a lungo termine. Ed è chiaro che la BCE non potrebbe accettare che il governo italiano ignorasse l’allarme. La protezione dei BTp sarà subordinata in un certo qual modo alla capacità di Roma di garantire per la discesa del debito. Basteranno rassicurazioni verbali? Probabile di no. E’ per questo che l’ipotesi di una correzione dei conti pubblici in corso d’anno serva per segnalare ai mercati che l’Italia abbia la volontà di proseguire sulla strada del risanamento fiscale, così da convincerli che i suoi titoli di stato resteranno “scudati” dalla BCE. Con la vecchia o nuova Commissione si troverà un accordo per non infierire troppo. Serve un “beau geste” per preservare la credibilità formale del TPI e la stessa tenuta dei nostri bond sul mercato.

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