Dagli Stati Uniti all’Europa, è il Great Resignation. Il fenomeno è sorto in coincidenza con l’allentamento delle restrizioni anti-Covid e consiste nella fuga dal lavoro di milioni di persone. Negli Stati Uniti, nel dicembre del 2021 il 3% degli occupati si è dimesso dalla propria azienda per cercare qualche impiego migliore senza averne trovato già uno. In Europa, dove il mercato del lavoro è meno dinamico, i numeri sono complessivamente diversi, ma la tendenza è simile. Prendiamo l’Italia, di certo non la patria dell’occupazione.

Da noi ci sono state 2,2 milioni di dimissioni nel 2022, in crescita del 13,8% rispetto al 2021 e a fronte di poco più di 2 milioni di disoccupati. Le aziende italiane cercano qualcosa come mezzo milione di profili che non riescono a trovare.

Più che fuga dal lavoro, siamo in presenza di una fuga dal proprio lavoro, che è diverso. Non è che improvvisamente i dipendenti abbiano trovato una fonte magica sulla quale confidare per ottenere entrate monetarie misteriose. Semplicemente, si sono rotti di stare alle dipendenze di aziende che pagano poco e/o fanno sgobbare molto, spesso non offrendo neppure serie prospettive di carriera e crescita professionale.

Fuga dal lavoro tra profili qualificati

Se c’è una cosa che ci ha insegnato la pandemia, è che il lavoro h24 non aiuta a vivere bene. E’ tossico. Le “grandi dimissioni”, però, non coinvolgono tutti i lavoratori. Possono permettersi di abbandonare il proprio lavoro alla ricerca di nuove esperienze solo coloro che credono di essere realisticamente appetibili per il mondo delle aziende. Dunque, i lavoratori più qualificati e con maggiore esperienza sarebbero i più interessanti dal fenomeno. Se così, questa tendenza rimarca un problema molto serio per il futuro delle aziende italiane.

Le dimissioni dal lavoro tendono ad essere cicliche. Non è un fenomeno realmente nuovo, semmai nuova è l’entità di questi anni. Quando l’economia cresce e il mercato del lavoro va bene, molti lavoratori posseggono sufficiente fiducia circa la possibilità di trovare un impiego migliore.

Viceversa, quando l’economia ripiega e il mercato del lavoro va male, i lavoratori cercano il più possibile di mantenere il proprio posto.

I numeri delle grandi dimissioni segnalano che le aziende starebbero faticando a trattenere i profili più qualificati dei loro organici. Questo significa altresì che rischiano di entrare nella prossima crisi ciclica dell’economia in condizioni di debolezza da un punto di vista della qualità dei dipendenti. Di conseguenza, molte potrebbero sparire in condizioni macro e settoriali meno positive. Al contrario, le aziende che riusciranno ad attirare i talenti migliori e a trattenere quelli che già hanno in organico, verosimilmente si rafforzeranno durante una fase di crisi.

Criticità per aziende italiane

Se questo discorso vale soprattutto per contesti come gli Stati Uniti, da noi il problema principale non è rappresentato dalle dimissioni, bensì dalla carenza di offerta di lavoro. In altre parole, sono sempre meno coloro che si candidano per un posto di lavoro. E pensate che incredibilmente sta accadendo persino nel settore pubblico. Da Nord a Sud, non basta più bandire concorsi per richiamare orde di giovani affamati di lavoro e posto fisso. Molte offerte sono disertate, perché considerate incongrue sotto il profilo retributivo.

Le aziende italiane che passano mesi, se non anni, a cercare lavoratori senza trovarli e che al contempo mantengono invariate le condizioni offerte, stanno perdendo fatturato, profitti e prospettive. Un posto vacante equivale a produzione perduta. Quando ciò si protrae nel tempo, si perdono anche quote di mercato e si rischia di entrare in una fase di crisi da una condizione di estrema marginalità e debolezza. Sbraitare contro gli “scansafatiche” non risolverà il problema. Questo non significa che abbiano ragione gli uni e torto gli altri.

Il mercato è uno spazio virtuale in cui s’incontrano interessi contrastanti. Se vendo un chilo di mele per 5 euro, probabile che non troverò clienti. Posso anche gridare ai quattro venti che siano biologiche e squisite, ma solo abbassando il prezzo preteso inizierò a venderle. I consumatori nel frattempo si rivolgeranno a un fruttivendolo più economico, che farà affari a mio discapito.

Non c’è solo la retribuzione tra i pensieri dei lavoratori. Gli orari di lavoro non sono secondari, così come le possibilità di carriera e di acquisire conoscenze ed esperienze qualificanti. Molte aziende hanno bisogno di fare reset di meccanismi mentali diffusisi in anni e contesti socioculturali assai diversi da quelli di oggi. La stessa avversione pregiudiziale allo smart working diventa un boomerang. L’imprenditore dimostra, in quel caso, di avere una concezione rigida dell’organizzazione del lavoro e di non riuscire a concedere fiducia ai propri dipendenti, oltre che a misurarne i risultati. E in un battibaleno diventa inappetibile agli occhi dei più giovani, che danno per acquisiti i benefici offerti dalle conquiste della tecnologia.

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