Un taglio con l’accetta per le stime di crescita del PIL italiano di quest’anno, passate dall’1,1% di luglio allo 0,7%. Il Fondo Monetario Internazionale vede grigio sull’Italia e il suo responsabile del dipartimento bilancio, Vitor Gaspar, ha invitato il governo Meloni ad essere “più ambizioso” nel processo di riduzione del debito pubblico. La discesa continuerebbe rispetto al PIL anche quest’anno e il prossimo, ma ad un ritmo molto lento e restando al di sopra dei livelli pre-Covid.

Con la Nota di Aggiornamento al DEF di fine settembre, il governo italiano ha rivisto al ribasso le stime di crescita e al rialzo il deficit fiscale. Come risultato di queste due tendenze, il rapporto tra debito e PIL quest’anno scenderebbe solo al 140,2% dal 141,7% del 2022, mentre nel 2024 resterebbe sostanzialmente invariato al 140,1%. Atteso un calo al 139,9% nel 2024, cioè di altri appena tre decimali. Tutte indicazioni che hanno fatto scattare l’allarme tra le agenzie di rating, così come sui mercati (vedi spread) e tra gli organismi internazionali.

Fondo Monetario invita Meloni a maggiore ambizione

L’ambizione a cui è stata invitata la premier Giorgia Meloni si traduce per espressa dichiarazione del Fondo Monetario Internazionale nell’invito a realizzare riforme strutturali per potenziare il tasso di crescita nel medio-lungo periodo. Poi, c’è sempre la seconda gamba, quella fiscale. Lì, si tratta di tenere a bada la spesa corrente e di migliorare il sistema di riscossione, ovvero contrastare con maggiore efficacia l’evasione fiscale.

Peccato che il Fondo Monetario arrivi a certe considerazione sempre con ritardo. Qualche anno fa, spronare l’Italia a ridurre il debito pubblico con maggiore ambizione sarebbe stato non solo più appropriato, ma anche più facilmente accoglibile e realistico. Certo, uscendo dal Covid il primo pensiero dei governi non è certo stato di risanare i conti pubblici. Tuttavia, l’Italia si distinse tra il 2021 e il 2022 per avere tenuto il disavanzo di bilancio su percentuali elevate e non giustificate da alcuna scelta macroeconomica di sorta.

Fu un biennio di regalie tramite innumerevoli bonus, che ebbero certamente l’effetto di trainare il PIL, ma anche di far lievitare il debito pubblico.

Boom rapporto debito/PIL da 2019

Lo stock aveva chiuso a 2.410 miliardi di euro nel 2019. A fine 2022, risultava esploso già a 2.760 miliardi: +350 miliardi. Nello stesso arco di tempo, il PIL era salito solo di appena 150 miliardi in termini nominali. Ed è così che il rapporto tra le due grandezze è passato dal 134% a quasi il 142% in tre anni. Si sarebbe potuto fare un po’ di più per porre un freno al deficit? Ce lo saremmo aspettati da un premier di nome Mario Draghi, il quale ha prodotto in meno di due anni di governo un disavanzo complessivo di circa 180 miliardi.

La situazione odierna non è facile. La crescita si è spenta. Un po’ era scontato che accadesse dopo due anni di grande rimbalzo seguito al crollo del PIL nel 2020. Nello specifico, però, hanno gravato fattori come crisi dell’energia, alta inflazione, recessione della Germania e debole congiuntura internazionale, unitamente alle tensioni geopolitiche. Il ruolo del Pnrr si conferma per quello che ipotizzavamo sin dall’inizio: poca roba! E il governo di turno non c’entra, perché le prime tre rate sono state incassate e in due anni abbiamo portato a casa 85,4 miliardi, oltre quattro punti di PIL e quasi la metà del totale spettante all’Italia tra sovvenzioni e prestiti (44,5%).

Debito pubblico giù con liberalizzazioni e spending review

Il governo sta cercando di accelerare sul capitolo privatizzazioni, sia per raccogliere liquidità con cui abbattere le emissioni di titoli del debito pubblico, sia per lanciare un segnale ai mercati. Va anche bene, ma arriveranno spiccioli da questo canale.

La vera riforma che manca riguarda le liberalizzazioni. Ci sono forti resistenze corporative e ideologiche nelle maggioranza di centro-destra, che impediscono di affrontare questo capitolo con la dovuta serietà. Liberalizzare i diversi settori dell’economia legati ai servizi significa creare concorrenza, stimolare investimenti, qualità dell’offerta, abbassare i prezzi, creare opportunità di lavoro e migliorare il potere di acquisto dei consumatori. Ergo, potenziare il PIL.

Manca anche una revisione rigorosa della spesa pubblica, la famosa “spending review”. Non serve creare commissioni di tecnici o affidare incarichi ad ennesimi esperti in materia. Ciascun ministero dovrebbe trovare entro pochi mesi le voci di spesa da ridurre in quanto non efficienti o palesemente in eccesso rispetto ai bisogni da soddisfare. E l’operazione dovrebbe esitare non meno di un paio di punti di PIL da mettere a disposizione per l’abbattimento del debito pubblico. Queste sono le azioni che servono all’Italia per riguadagnarsi la fiducia dei mercati. Non c’è stato il coraggio di metterle in pratica quando il PIL cresceva e ci offriva il tempo necessario per fare le cose senza fretta.

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