Dal venerdì 15 settembre, il Venezuela pubblica quotidianamente i prezzi del petrolio in yuan e non più in dollari. E’ la conseguenza dell’annuncio del presidente Nicolas Maduro di porre fine al “dominio del dollaro”, in risposta alle ultime sanzioni comminate dall’amministrazione USA contro il suo mercato del debito. Caracas non può impensierire Washington, sia perché le sue dimensioni economiche appaiono del tutto insignificanti nello scenario mondiale, sia anche per lo stato di collasso economico e finanziario in cui lo stato sudamericano versa da tempo.

Quello di Maduro è poco più di una provocazione e il dollaro nel paese rimane fondamentale persino adesso, come dimostra la conversione che la compagnia petrolifera PDVSA effettua dal cambio americano a quello cinese per pubblicare i dati in yuan. (Leggi anche: Venezuela non accetta più dollari, countdown verso il buio totale)

Il dominio del dollaro, tuttavia, se ancora non sembra effettivamente a rischio, potrebbe esserlo tra non molto tempo. La Cina ha annunciato a inizio mese un piano per acquistare dai produttori il petrolio non più in dollari, bensì in valuta locale, lo yuan. Questo sarebbe agganciato all’oro, in modo da rassicurare i fornitori. Chi accettasse questo schema di pagamento, otterrebbe migliori condizioni contrattuali in Cina.

Fine dei petrodollari, cosa succede?

Se la seconda economia mondiale – prima da qui al prossimo decennio, secondo le previsioni – riuscisse a scalfire il monopolio delle quotazioni internazionali in dollari per le materie prime, sarebbe un primo contraccolpo psicologico importante accusato dall’America. Immaginiamo per un attimo che realmente Pechino, grazie a un asse con la Russia e l’Iran, nonché con l’Arabia Saudita, mettesse fine allo strapotere del dollaro nelle transazioni internazionali; cosa accadrebbe di concreto per la vita di 330 milioni di americani? (Leggi anche: Bomba cinese contro i petrodollari)

Iniziamo dai numeri. Quasi i due terzi delle riserve valutarie nel mondo sono denominati in dollari.

Tra Cina, Giappone, Svizzera, Arabia Saudita, Russia ed Eurozona, ammontano a circa 7.000 miliardi di dollari, di cui la gran parte proprio nella divisa USA. Detenere dollari appare una scelta obbligata per tutte le banche centrali del pianeta, in quanto essi servono ad acquistare materie prime, oltre che a commerciare con la prima economia mondiale. E detenere dollari significa acquistare assets denominati nella valuta americana, ovvero essenzialmente Treasuries, i titoli del debito pubblico americano, considerati abbastanza sicuri e il cui mercato è altamente liquido, per cui appaiono assimilabili al cash, con la differenza che rendono persino qualcosa.

Ebbene, i Treasuries detenuti dagli investitori stranieri al luglio scorso ammontavano a 6.250 miliardi di dollari, di cui 1.166 miliardi in mano alla sola Cina e 1.113,1 miliardi del Giappone. Si tratta di circa il 40% dell’intero debito federale negoziabile, ovvero ad esclusione della quota in mano alla Federal Reserve. Grazie a questa corsa verso il dollaro, i rendimenti sovrani negli USA sono relativamente bassi e oggi il governo di Washington riesce a gestire un debito di circa il 105% del pil, pagando interessi per appena l’1,3% del pil a stelle e strisce. A titolo di confronto, l’Italia con un debito al 133% paga il 4% del pil, nonostante l’azzeramento dei tassi da parte della BCE.

Sarebbe la fine del consumismo USA?

Bassi interessi stimolano i consumi privati e incentivano all’indebitamento anche famiglie e imprese negli USA, il cui debito ammonta al 200% del pil. Senza il dollaro come valuta indispensabile nell’acquisto delle commodities, le banche centrali del resto del mondo ne deterrebbero minori quantità e si affannerebbero a comprare meno Treasuries. Di conseguenza, il costo dell’indebitamento negli USA salirebbe e così anche gli interessi sui debiti accesi dagli americani nel settore privato. Quell’eccesso di consumi che si riflette da decenni in un disavanzo commerciale cronico verrebbe via via ridotto e gli standard di vita del popolo americano si abbasserebbero, sgonfiandosi quella bolla dentro la quale l’America vive dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Non tutto il male verrebbe per nuocere, perché nel suo complesso l’economia americana ne uscirebbe nel tempo meno indebitata, anche se non potrebbe più fare leva sul super-dollaro e sarebbe maggiormente esposta a fenomeni come inflazione e volatilità dei mercati finanziari. In sostanza, la fine del dollaro quale valuta di riserva mondiale agirebbe da disciplina fiscale da un lato, riportando la bilancia commerciale in equilibrio e famiglie e imprese con i piedi per terra sul fronte dei consumi e degli investimenti dall’altro. Prima, però, gli USA passerebbero per una fase di transizione tutt’altro che indolore. (Leggi anche: Sogno americano si trasformerà in incubo con la fine dei petrodollari)