Lo spread BTp-Bund e, più in generale, quello esistente tra i paesi del sud e la Germania ci ricordano ogni giorno che l’euro è nato e resta una costruzione monetaria incompleta. Il solo fatto che uno stato emetta oggi debito sovrano a 10 anni con rendimenti sottozero e un altro lo faccia a costi fino al 3-4% segnala l’incongruenza di una moneta che non unisce, bensì cristallizza le differenze economiche e finanziarie nell’area. Se il mercato pretende sui BTp un premio al rischio di 2-300 punti base rispetto ai bond emessi dalla Germania, significa che continua a valutare il rischio sovrano italiano e quello tedesco come se Italia e Germania fossero due stati del tutto sconnessi, cosa che è sostanzialmente vera.

Che utilizzino la stessa moneta non ha alcuna importanza pratica, perché alla base non vi è uno stato di riferimento capace di intervenire per risolvere eventuali crisi fiscali esplose in questo o quel paese.

Italia a rischio di uscita dall’euro o di ristrutturazione del debito?

Il rimedio alla costruzione incompleta dell’euro si chiamerebbe unione fiscale, vale a dire l’istituzione di un Tesoro comune, che incassa e spende per tutta l’area e che al contempo emette debito sovranazionale (cosidetti “eurobond”). Qualcosa di simile la propone da quasi due anni il presidente francese Emmanuel Macron, ma la Germania la respinge quotidianamente e lo stesso fanno gli altri stati del centro-nord, Olanda e Finlandia in testa. Perché? Nessuno si fida degli altri; nessuno vuole pagare per gli altri; nessuno si sente solidale con gli altri.

La moneta senza popolo non ha futuro

I tedeschi sanno che se mettessero le loro finanze in comune con gli italiani, finirebbero probabilmente per trasferire risorse verso il Bel Paese, dove il governo nazionale continuerebbe a spendere in eccesso rispetto alle entrate e il deficit conseguente verrebbe finanziato da emissioni europee, garantite da tutti gli stati membri e, in una certa misura, pagate dagli altri stati fiscalmente più virtuosi.

Perché? Le emissioni di eurobond costerebbero una via di mezzo ponderata tra i rendimenti bassi del nord e quelli più alti del sud, per cui i primi spenderebbero di più di oggi per gli interessi sul debito, i secondi di meno. Si tratterebbe di un puro e semplice trasferimento di risorse dal nord al sud. E questo nessuno lo desidera, al nord.

Spread reale tra Italia e Germania ancora più alto e rende impossibili gli eurobond

In un certo senso, accade lo stesso all’interno degli stati nazionali odierni: se le regioni italiane emettessero debiti al pari del Tesoro di Roma oggi, disponendo di una quasi totale autonomia fiscale, la Lombardia pagherebbe certamente interessi nettamente più bassi della Calabria, essendo la prima ricca e con entrate in eccesso e la seconda povera e cronicamente in deficit. Pur con tutti i mugugni che conosciamo da decenni, però, il nord ha accettato nei fatti di sobbarcarsi un costo relativamente elevato per il sud, non fosse altro che per l’esistenza di un pur minimo sentimento nazionale, che rende naturale pensare che una parte dello Stivale non possa essere abbandonata a sé stessa.

Questo spirito non esiste nell’Eurozona e forse non esisterà da qui a qualche secolo. Un tedesco trova scandaloso pagare per l’eccesso di spesa in Grecia e, a parti inverse, lo stesso penserebbero i greci verso la Germania. Le preferenze fiscali dei popoli, poi, divergono anche per effetto delle diverse condizioni socio-economiche, per cui gli abitanti delle aree più ricche opteranno per limitare i disavanzi e per minimizzare la spesa; viceversa, quelli delle aree più depresse. Non essendovi uno stato, inteso come comunità di sentimenti e non solo come istituzioni formali, nessuna politica fiscale comune sarà mai possibile nell’area, con la conseguenza che l’euro è nato, è e resterà sempre una costruzione monca, una via di mezzo tra una moneta davvero unica e un semplice cambio fisso multilaterale stabilito tra 19 stati membri.

Serve studiare una via d’uscita teorica

I mercati, per tutto il primo decennio dalla nascita dell’euro, avevano pensato che la forma sarebbe stata superata dalla sostanza e che nei fatti ormai l’Eurozona dovesse considerarsi un vero e proprio super-stato, caratterizzato da una solidarietà al suo interno tra paesi in surplus e altri in deficit. Scoprirono con il crac della Grecia che non solo avevano sbagliato i conti, ma che tra gli stati membri sarebbero stati impostati rapporti di puro credito-debito, come se fossimo in presenza di parti private e non di entità sovrane. E i capitali, che erano fluiti copiosi al sud fino al 2008, azzerando gli spread e creando l’illusione di un unico mercato finanziario nell’area, hanno ripreso a spostarsi verso nord, attratti dalla maggiore sicurezza dei fondamentali e disillusi dalla volontà dell’Eurozona di perseguire quel completamento della costruzione monetaria, alla base delle tensioni economiche, finanziarie e politiche dell’ultimo decennio.

Il ritorno dell’Italia alla lira e la bufala della Germania spaventata dalla nostra uscita dall’euro

L’inesistenza di un popolo europeo si mostra visibile a queste elezioni del 26 maggio, dove ciascun gruppo politico sembra fare capo a uno o più stati-guida e dove alcuni governi (Austria, in primis) minacciano altri (Spagna, Grecia e Italia) di sanzioni per ragioni di portafoglio. L’euro non solo resterà così com’è, ma non esiste nemmeno una via d’uscita formale e ordinata nel caso qualcuno avesse il coraggio di percorrerla. I “sovranisti” del nord, tedeschi e finlandesi in testa, propongono esplicitamente che una “exit” venga studiata per rendere il meno traumatico possibile l’addio di uno stato.

Per quanto sarebbe auspicabile che se ne discutesse, il tema non potrà essere all’ordine del giorno da qui ai prossimi anni, perché il solo parlarne metterebbe in dubbio la sopravvivenza dell’euro e farebbe divampare la speculazione ai danni di paesi come l’Italia, avverando la profezia e finendo per fare crollare l’impalcatura fragile dell’euro.

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