C’era una volta la Spagna stabile grazie a un modello bipartitico funzionante. Popolari contro socialisti è stato lo schema su cui la vita politica del paese è stata imperniata dalla fine del franchismo negli anni Settanta fino a non molto tempo fa. Madrid era invidiata da Roma per la sua capacità di formare governi monocolori o comunque retti da un grande partito e che duravano per l’intera legislatura di quattro anni. Le elezioni generali in Spagna di ieri, invece, ci consegnano un quadro assai diverso.

Gli smemorati e coloro che hanno seguito poco o niente le vicissitudini ispaniche, magari non ricordano che questo è stato il quinto voto nazionale in poco più di sette anni e mezzo.

Elezioni Spagna, rebus maggioranza

Ieri, il centro-destra ha riportato una vittoria sul blocco di sinistra, ma senza conquistare la maggioranza assoluta dei seggi (176 su 350 alla Cortes). Il Partito Popolare di Alberto Nunez Feijòo è salito da 89 a 136 seggi, ben sotto i 145-150 a cui ambiva anche sulla base dei primi exit-poll. Il potenziale alleato di Vox, partito della destra euro-scettica e filo-franchista di Santiago Abascal, è crollato da 52 a 33 seggi. Insieme, arrivano a 169 seggi. Anche contando sull’eventuale appoggio di qualche altro partitino, la coalizione non arriverebbe mai a 176. Dovrebbe confidare sulla generosa astensione dei socialisti, che non ci sarà.

La “remuntada” del premier Pedro Sanchez c’è stata. Rispetto al 2019, ottiene 2 seggi in più, portandosi a 122. Il suo principale alleato della sinistra radicale Sumar, che raggruppa gli ex Podemos, si ferma a 31 seggi. Insieme, arrivano a 153 seggi. Per arrivare a 176 dovrà confidare sul voto favorevole di quasi tutti i partitini indipendentisti, oltre che sull’astensione dei nazionalisti catalani di Junts, i quali posseggono 7 seggi. Operazione molto difficile, pur non impossibile.

Il punto è un altro. E’ dal 2015 che le elezioni in Spagna esitano risultati senza vincitori netti e sconfitti certi.

Nell’ottobre del 2016 l’allora premier conservatore Mariano Rajoy giurò per il secondo mandato a distanza di dieci mesi dalle elezioni del dicembre 2015, che richiesero una ripetizione a giugno per verificare con maggiore nitidezza l’esistenza di una maggioranza. La cosa si ripeté nel 2019, quando a Sanchez occorsero due elezioni a distanza di sei mesi l’una dall’altra per rimanere alla Moncloa.

Ascesa e fine dei partiti contestatari

Nel frattempo, erano spuntati due partiti in scia alla crisi sociale e istituzionale che continua a dilaniare Madrid. Podemos di Pablo Iglesias diede per anni voce alla sinistra più estrema, salvo perdere consensi dopo avere sostenuto Sanchez al governo. Si è diluito, come detto, in Sumar. Al centro vi era Ciudadanos di Albert Rivera, un partito contrarissimo all’indipendenza della Catalogna e liberale in economia. Sembrò quasi per soppiantare il Partito Popolare, mentre a queste elezioni in Spagna di ieri non si è presentato per evitare l’umiliazione di un risultato prossimo allo zero.

Vox da destra ha dato ospitalità ai tanti consensi in fuga dai popolari, colpiti da indagini per corruzione e accusati dalla base di essere diventati molto simili ai rivali socialisti (l’avete sentita altrove?). Ieri, ha registrato un tonfo di seggi e consensi importante. Probabile, anzi quasi certo, che sia avvenuto contestualmente alla risalita dei popolari. Il fatto è che Feijòo è sembrato incerto sulle alleanze, prospettando sì una maggioranza con Vox, ma solo a mali estremi. La sua indecisione potrebbe essergli costata carissima. Improbabile che diventi premier a questo giro.

Madrid paga ancora crisi del 2008

A cosa si deve la crisi del modello bipartitico? La Spagna è stata travolta da una grave crisi economica e finanziaria dopo il 2008. Negli ultimi anni, registra tassi di crescita soddisfacenti, ma l’occupazione non si è mai del tutto ripresa dopo lo shock di quindici anni fa.

La stessa disoccupazione resta alta e l’insoddisfazione per la qualità dell’offerta politica pure. E anche la Spagna ha un Nord ricco e un Sud povero. I movimenti indipendentisti di Catalogna e Paesi Baschi, in particolare, sono la spia del malumore nella parte benestante del paese, costretta a finanziare l’assistenzialismo nelle aree più disagiate. Temi a noi italiani non estranei, ma che le istituzioni iberiche non sono stati in grado di incanalare in un dibattito pubblico trasparente e schietto.

Da elezioni Spagna governo debole

Re Felipe avrà la patata bollente di dover dirimere la controversia che adesso scaturisce tra i due principali schieramenti. Feijòo reclama il diritto all’investitura da premier, essendo a capo del partito più votato e con il maggior numero di seggi in Parlamento. Sanchez pretenderà di restare in carica, in quanto avrebbe teoricamente le maggiori chance di costruire larghe alleanze per ottenere il via libera dei deputati. Comunque andrà, nascerà un governo debole. E questo accade nella quarta economia dell’Eurozona e quando manca meno di un anno alle elezioni europee. Una Spagna debole è ciò che servirà ai “falchi” del Nord Europa per spuntarla su temi come la riforma del Patto di stabilità.

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