Il prossimo rialzo dei tassi negli USA dovrà essere almeno di altri 50 punti base o 0,5%. L’ultima lettura sui posti di lavoro non agricoli (“non farm payrolls”) per il mese di aprile non ha lasciato scampo alla Federal Reserve: +428.000 occupati contro +380.000 attesi. Le retribuzioni orarie sono cresciute dello 0,3% rispetto a marzo, del 5,5% in un anno. Le attese erano superiori, cioè rispettivamente di +0,4% e +5,5%. Soprattutto, a marzo erano cresciute dello 0,5% mensile. E il tasso di disoccupazione è leggermente salito da 3,5% a 3,6%. Piccolissimi appigli per evitare un’accelerazione della stretta sui tassi ve ne sarebbero per il governatore Jerome Powell.

Sta di fatto che l’economia americana rimane robusta e non tale da permettersi tassi d’interesse così bassi, a fronte di un’inflazione salita all’8,5% a marzo.

La stangata dei mutui

E’ vero, d’altra parte, che il PIL USA nel primo trimestre sia diminuito dell’1,4% rispetto agli ultimi tre mesi del 2021. Quel dato, però, ha risentito perlopiù del “super” dollaro, che a sua volta ha fatto aumentare le importazioni, accentuando il cronico passivo della bilancia commerciale. In realtà, la recessione dell’economia americana rimane uno spettro, pur forse non dietro l’angolo. Ma essa appare la conseguenza naturale della lotta all’inflazione.

Se volete qualche dato per capire di cosa stiamo parlando, parliamo di mutui. La scorsa settimana, il mutuo a tasso fisso a 30 anni negli USA costava in media il 5,27%. Un anno prima era al 2,96%. Nel frattempo, i prezzi delle case sono aumentati di ben il 20,6% a una media di 337.560 dollari a marzo, secondo l’indice Zillow. E le retribuzioni? Come detto, cresciute del 5,5%, cioè sotto il tasso d’inflazione e, soprattutto, di un quarto rispetto ai rincari delle case. Nel primo trimestre, ammontavano alla media annuale di quasi 54.000 dollari.

Mettendo assieme questi dati, otteniamo quanto segue: accendere in media un mutuo trentennale a tasso fisso comporta oggi il pagamento di una rata di circa 1.495 dollari al mese contro meno di 940 dollari di un anno fa.

Su base mensile, l’aggravio ammonta a oltre 555 dollari, pari a 6.664 euro l’anno. In pratica, la rata del mutuo incide per un terzo esatto dello stipendio medio contro il 22% di un anno fa. Il rialzo dei tassi scontato dal mercato, in buona sostanza, si è mangiato più del 10% dello stipendio di un americano medio in appena un anno. E siamo agli inizi della stretta, sebbene il mercato si sia portato avanti e abbia immaginato già i livelli a cui la FED tenderà.

Rischio recessione non solo per economia americana

Questo è solo un esempio di come la lotta all’inflazione finirà con ogni probabilità per portare l’economia americana in recessione. Da un lato, il carovita si mangia una parte degli stipendi, dall’altro il costo del denaro completa l’opera. Pur ancora con numeri di gran lunga inferiori, lo stesso sta iniziando ad accadere nell’Eurozona. I mutui restano a buon mercato, ma da noi a divorare il potere d’acquisto è l’inflazione solo marginalmente compensata dagli aumenti retributivi. L’ISTAT segnala +0,8% per i contratti nazionali nel primo trimestre, a fronte di un’inflazione italiana al 6,2% in aprile. Cambiando l’ordine dei fattori, il risultato non cambia: i bilanci familiari iniziano a non quadrare più. Sarà recessione.

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