Tra circa un mese e mezzo conosceremo nei dettagli il piano di Unicredit per riorganizzare le sue attività all’estero, che incidono complessivamente per poco oltre la metà dei ricavi della banca. Sappiamo già, comunque, che si tratterà di avviare lo smantellamento del business in Italia, attraverso la creazione di una sub-holding in Germania, nella quale confluiranno le attività extra-italiane. E che il legame tra Unicredit e Bel Paese si stia allentando da tempo lo segnalano diversi fattori. Nei mesi scorsi, è stata ceduta a sorpresa l’intera quota detenuta nella banca online Fineco e l’amministratore delegato, Jean-Pierre Mustier, ha parlato di dimagrimento significativo delle esposizioni verso i BTp, i titoli del debito pubblico italiano, in pancia per 54 miliardi di euro al 31 marzo scorso.

Ed è di pochi giorni fa l’annuncio che Unicredit imporrà tassi negativi sui conti correnti sopra il milione di euro, quasi a volere allontanare la clientela domestica, così da giustificare come naturale la fuga dall’Italia. Qual è il problema? Essere italiani non paga sui mercati finanziari di questi tempi, anzi. L’Italia ha un rating sovrano debole, a un passo dal livello “spazzatura” per Moody’s. Questo pesa sui costi del funding e per le incertezze che genera riguardo al futuro. In effetti, la stessa banca ha un rating basso, pari a “BBB” per S&P e Fitch e “Baa3” per Moody’s.

Conti correnti Unicredit, le scappatoie ai tassi negativi della banca

Fuga dall’Italia pessimo segnale

Questo aspetto influisce negativamente sui costi della raccolta dei capitali sui mercati, tendendoli più alti di quelli dei principali competitor. E a sua volta, ciò riduce i margini di guadagno derivanti dall’attività caratteristica, anche quando essa viene svolta fuori dai confini nazionali, perché Piazza Gae Aulenti viene considerata una banca italiana, volente o nolente, con tutto quel che comporta anche in termini negativi sul piano finanziario.

In altre parole, con gli stessi fondamentali, se fosse tedesca, olandese o francese registrerebbe costi più bassi in fase di raccolta. Da qui, il piano di abbandonare l’Italia senza far troppo rumore, guarda caso anche riducendo il personale di 10.000 unità (10% del totale) quasi del tutto sul territorio nazionale.

Che Unicredit continuerà ad avere sede a Milano e ad essere quotata a Piazza Affari conta poco, se nel frattempo la banca verrà svuotata operativamente, con le attività estere a convogliare in una società separata e di diritto tedesco. Chissà che l’operazione non sia anche intrecciata con la volontà dell’italiana di rilevare Commerzbank, tra le principali banche in Germania. Poiché il governo di Berlino non venderebbe mai e poi mai un asset così importante a un soggetto tricolore, probabile che lo spin-off in corso punti anche a trovare un accordo e ammorbidire le resistenze di politica e opinione pubblica tedesche.

Per l’Italia, l’addio non sarebbe né indolore e né tanto meno marginale, perché implicherebbe una perdita progressiva e veloce di rilevanza del nostro sistema bancario-finanziario, politico ed economico nel panorama internazionale, come se far parte del nostro Paese fosse diventato un marchio da cancellare a ogni costo per non subirne le conseguenze. Un grosso problema per il sistema delle imprese italiane, che rischia di pagare con una minore attenzione ai suoi bisogni sul territorio, mentre il risparmio dei clienti italiani finirebbe per finanziare le industrie concorrenti, quelle che hanno sede nei paesi in cui Unicredit sposterà le sue attenzioni per scrollarsi di dosso l’italianità ancora riconosciutale.

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