Cosa succede alle borse mondiali? L’indice S&P 500 a Wall Street è in calo quest’anno del 13%. Tra i minimi registrati nel febbraio 2009 a seguito della crisi finanziaria globale e i massimi toccati poco prima della pandemia, aveva corso del 400%. Perdite simili a Piazza Affari, così come a Francoforte e Parigi. Quasi nulle, invece, a Londra. Fatto sta che al minimo cenno di rialzo dei tassi d’interesse, i mercati azionari stanno subendo una decisa correzione. La Federal Reserve ha iniziato ad alzare il costo del denaro, così come la Banca d’Inghilterra, del Canada, della Corea del Sud, la Norges Bank e la Reserve Bank of New Zealand.

La BCE ancora no. Per quale ragione tassi d’interesse più alti dovrebbero deprimere le borse mondiali?

Valore delle azioni con tassi d’interesse più alti

Cerchiamo di fare il punto in maniera volutamente non esaustiva, ma toccando tutti i punti chiave della correlazione. In primis, vi è un fattore tecnico: il prezzo di un’azione è il valore attualizzato dei profitti futuri attesi della società. Immaginate che vi offrano 100 euro tra un anno. Vi chiederete a quanto equivalga oggi questa somma. Per calcolarlo, dovete scontare i 100 euro per i tassi d’interesse vigenti sul mercato, generalmente per asset privi di rischio. Ad esempio, se fossero del 3%, i 100 euro tra un anno oggi varrebbero 100 / 1,03 = 97,09 euro.

E se i tassi d’interesse salissero al 5%? Quegli stessi 100 euro varrebbero 100 / 1,05 = 95,24 euro. In altre parole, il rialzo dei tassi comporta il calo di valore per i flussi di reddito attesi in futuro. Servirà un aumento di tali flussi per compensare i più alti tassi d’interesse e mantenere inalterato il valore delle azioni.

Concorrenza dei bond

C’è un’altra ragione tecnica, correlata con quella appena accennata, se vogliamo: se salgono i tassi d’interesse offerti dai titoli di stato e, in generale, dal mercato a reddito fisso, la concorrenza nei confronti delle azioni cresce.

Supponiamo di attendervi che un’azione vi distribuisca annualmente un dividendo pari al 3% dell’investimento e che il BTp a 10 anni vi offra il 2%. Tralasciando il più alto rischio dell’investimento azionario, sareste più invogliati a comprare azioni anziché titoli di stato. Ma se il BTp inizia ad offrirvi il 4-5%, sposterete su di esso l’attenzione, vendendo azioni.

Impatto sull’economia reale

Altra ragione più squisitamente economica: tassi d’interesse più alti implicano maggiori costi per prendere a prestito denaro e una maggiore remunerazione dei risparmi. In sostanza, tendono a comprimere consumi delle famiglie e investimenti delle imprese. La domanda aggregata si riduce. Le imprese producono beni e servizi, vivono di vendite, cioè dei consumi dei clienti. Inoltre, i loro investimenti costeranno di più e si ridurranno i margini di profitto. Dunque, tassi d’interesse più alti accrescono la pressione sui valori in borsa delle società quotate, colpendo il fatturato e comprimendo gli utili.

Fine della bolla speculativa?

Infine, una spiegazione più speculativa. Sui mercati dal 2008 in poi si sono riservate migliaia di miliardi di dollari, euro, sterline, yen, ecc., attraverso le maxi-iniezioni di liquidità delle banche centrali. Gran parte di questo immenso denaro è rimasto confinato alla sfera finanziaria, andando a potenziare gli acquisti di azioni, obbligazioni, ecc. Con l’aumento dei tassi d’interesse, l’era del denaro facile si avvierebbe alla fine e ciò “sgonfierebbe” la bolla speculativa sulle borse mondiali, specie quella americana.

Borse mondiali non così spacciate

Tuttavia, la realtà potrebbe rivelarsi più complessa. I tassi d’interesse nominali stanno salendo, ma quelli reali continuano a scendere. Al netto dell’inflazione, cioè, il costo del denaro oggi risulta ancora più basso di qualche mese fa. E questo dovrebbe sostenere le borse mondiali, che forse stanno scontando una stretta monetaria globale più rigorosa di quella che sarà effettivamente.

E le aspettative d’inflazione possono giocare un ruolo non secondario. Il loro “surriscaldamento” potrebbe sostenere i corsi azionari, dato che sono le imprese a fissare i prezzi e se questi salgono, lo faranno anche i fatturati. Per contro a pagarne il prezzo sarebbero i corsi obbligazionari, perché in pochi vorranno investire in bond con rendimenti nominali al 2-3%, a fronte di prospettive sui tassi d’inflazione più elevati di quelli registrati negli ultimi 15-20 anni.

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