L’economia mondiale ha rallentato vistosamente la propria corsa nella seconda metà del 2018. Non disponiamo ancora dei dati sul pil USA nel quarto e ultimo trimestre dello scorso anno, ma anche la prima economia del pianeta dovrebbe avere registrato un tasso di crescita più moderato rispetto ai sei mesi precedenti. Altrove, la situazione appare più compromessa. Nell’Eurozona, non si è andati oltre lo 0,2% negli ultimi due trimestri e la Germania ha schivato la recessione per un pelo, segnando una crescita nulla tra ottobre e dicembre, dopo il -0,2% accusato tra luglio e settembre.

L’Italia in recessione c’è già (-0,2% dopo il -0,1%) e il Giappone ha alternato nell’ultimo anno trimestri negativi ad altri positivi, senza un’apparente bussola chiara. Quanto alla Cina, probabile che il suo pil quest’anno aumenterà, al netto dell’inflazione, di poco sopra il 6%, quando già il 2018 si è chiuso ai minimi dal 1993.

Come fare a capire la direzione esatta verso cui starebbe tendendo l’economia mondiale? Esistono alcuni indicatori, che per la loro natura riflettono le condizioni economiche delle grandi economie. Uno di questi è certamente il petrolio, principale fonte di energia per il pianeta. Quando la sua domanda cresce, a parità di offerta, le quotazioni salgono. E la domanda di greggio sale quando le imprese producono e le famiglie consumano di più, cioè quando l’economia è in salute. Viceversa, essa si riduce o globalmente tende a crescere a ritmi più lenti.

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Gli indicatori del rallentamento mondiale

Ebbene, il petrolio ha subito una brusca accelerazione tra l’aprile e l’ottobre scorsi, in coincidenza con le sanzioni minacciate e poi reintrodotte dalla presidenza Trump all’Iran. In appena un semestre, si è passati da 68 a 86 dollari per un barile di Brent, salvo ripiegare del 35% fino a un minimo di 50 dollari alla vigilia di Natale.

Da allora, però, le quotazioni hanno dimezzato le perdite, risalendo ai 64-65 dollari attuali e segnando un aumento del 30%, sostenuto perlopiù dall’OPEC, che ha annunciato un secondo taglio della produzione in due anni, nonché dalle sanzioni americane contro il Venezuela di Nicolas Maduro, che vede proprio la produzione (sempre più bassa) di petrolio al centro dell’embargo “soft”, teso a trasferire in mano alle opposizioni la gestione dei proventi delle esportazioni.

Per quanto forse il più monitorato dai mercati, il petrolio non è l’unico e nemmeno il più significativo indicatore del reale stato di salute dell’economia mondiale, in quanto la sua produzione è spesso, come nel caso dell’OPEC, soggetta a manipolazione per ragioni geopolitiche e di cartello. Ed ecco che in soccorso ci sovviene un altro indice, quello che capta l’andamento dei metalli industriali. Trattasi di alluminio, rame, zinco e nickel, utilizzati nella produzione industriale. Chiaramente, quando il loro impiego aumenta, significa che le imprese stanno producendo di più e i prezzi salgono, altrimenti segnalano debolezza dell’offerta e, quindi, scendono. L’indice di Bloomberg mostra un trend crescente fino agli inizi di giugno e che durava tra alti e bassi sin dal gennaio del 2016, quando aveva terminato una discesa iniziata nel settembre 2014. Da giugno a fine dicembre, i prezzi dei metalli industriali nel mondo risultano scesi mediamente di quasi il 30%, ma da allora sono tornati a crescere di oltre il 5%. Non un sostanziale recupero, insomma, ma la discesa sembra essersi interrotta.

Infine, il Baltic Dry Index. Come spiegato più volte su Investire Oggi, trattasi di un indicatore sui costi di trasporto delle merci non liquide sulle navi cargo. Esso rifletterebbe la vivacità degli scambi commerciali e della domanda globale. Infatti, se i consumi mondiali aumentano, le esportazioni di merci tramite le navi crescono e il costo di trasporto pure.

Questo indice ha toccato il suo picco nel giugno scorso, ponendo fine a un trend rialzista, sempre tra alti e bassi, iniziato nel febbraio del 2016, quando toccò il suo minimo storico di 290 punti, che si raffronta con il record del maggio 2008 di 11.793 punti. Da giugno è crollato del 66% fino alla settimana scorsa, rispetto alla quale si è registrato questa settimana il primo timido rialzo dopo due mesi. Troppo presto per capire se abbiamo toccato il fondo, anche se la speranza esiste ed è legata proprio all’andamento degli altri due indicatori sopra esposti.

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I segnali per il 2019

Tutti e tre hanno mostrato negli anni un andamento molto legato a quello dell’economia mondiale e, peraltro, coincidente. Hanno toccato punti molto bassi a inizio 2016, quando il petrolio crollava sotto i 30 dollari e i metalli rispetto ad oggi si attestavano su prezzi di circa il 27% più bassi. Tutti e tre si sono ripresi da allora e fino alla metà dello scorso anno, crollando ai minimi tra dicembre e oggi. E proprio il BDI segnala solitamente un ritardo di 1-2 mesi nei raggiungere i punti minimi e massimi dei trend, risentendo del fatto che le merci trasportate siano conseguenza di ordini avvenuti nei mesi precedenti. Dunque, se metalli e greggio hanno interrotto la discesa a fine dicembre, il BDI starebbe risalendo proprio da adesso.

Se tutto ciò è vero, significa che l’economia mondiale ha rallentato parecchio nella seconda metà dello scorso anno, similmente a quanto sia avvenuto tra il 2015 e il 2016. Tuttavia, proprio dopo che tali indici ebbero raggiunto allora il punto più basso, iniziò una graduale ripresa, che sfociò in un 2017 alquanto sorprendente in positivo. Questo implicherebbe, quindi, che la debolezza della congiuntura dovrebbe persistere probabilmente ancora per la prima metà dell’anno, quando auspicabilmente inizierebbe una certa accelerazione.

A differenza di 3 anni fa, poi, la Federal Reserve ha già segnalato l’intenzione di sospendere, se non di cessare del tutto, la stretta monetaria e ciò avrebbe riflessi espansivi anche sulla politica delle altre principali banche centrali, a sostegno della ripresa dei ritmi di crescita nel mondo.

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