C’è qualcosa che non va, e ormai da molto tempo, con i ristoranti di Eataly. Va bene mangiare “equo e solidale”, va altrettanto bene far pagare il Made in Italy a tavola, ma alla fine è il mercato a stabilire se un’idea imprenditoriale sia di successo o meno. E i numeri degli ultimi anni decretano il flop di Oscar Farinetti. Nel 2022, il bilancio si è chiuso con perdite per 25,8 milioni di euro, superiori ai 22,1 milioni del 2021. Per trovare un utile dobbiamo tornare al 2019, quando fu di appena 8 milioni su un fatturato di 521 milioni.

L’anno prima, però, c’era stato un rosso di 17 milioni. A conferma che la crisi di Eataly non è legata strettamente alla pandemia, contro la quale i governi di tutto il mondo hanno adottato restrizioni e che certamente bene non hanno fatto al settore della ristorazione.

L’idea di Farinetti si tradusse in impresa nel 2003. Consisteva e consiste ancora oggi nel servire cibo italiano in patria e all’estero e nel farselo pagare per quel che vale: tanto, forse troppo! In questi venti anni sono stati aperti 45 negozi-ristorante nel mondo, tra cui negli Stati Uniti, negli Emirati Arabi Uniti, in Giappone e persino in Russia prima della guerra in Ucraina. Il fatto è che le perdite accumulate sono arrivate a 70 milioni, a fronte di un patrimonio netto contabile di 58,7 milioni.

Tanta retorica e prezzi folli

Oltre alla ristorazione, Eataly aveva puntato su FICO, una sorta di Gardaland del cibo nell’ex area industriale di Bologna. Complice la pandemia, i ricavi sono stati ad oggi sempre inferiori ai costi per almeno un paio di milioni di euro per esercizio. Non sta andando granché meglio a Green Pea a Torino, che nasce dall’idea di offrire un centro commerciale rispettoso del pianeta. Nei suoi primi tredici mesi di attività i conti sono stati in rosso, pur di poco.

Resta da vedere se nel 2022 la musica sia cambiata o se l’aumento dei costi abbia superato quello del fatturato.

Eataly era un’idea originale una ventina di anni fa, quando l’attenzione al Made in Italy e al km 0 a tavola era molto meno avvertita tra gli stessi consumatori. Eravamo in piena stagione della globalizzazione anche alimentare. Tutto ciò che era locale, rischiava spesso di essere percepito ingiustamente come “demodé”. Farinetti ebbe la brillante idea, va riconosciuto, di portare all’attenzione del grande pubblico l’esigenza di valorizzare le produzioni nazionali. Questo “sovranismo” del gusto ante-litteram fu imbastito da certa retorica “equo-solidale”.

Fatto sta che con gli anni l’idea è diventata sempre meno originale, mentre i prezzi dei prodotti sono saliti a livelli insostenibili non solo per il grande pubblico, ma persino per le nicchie di mercato. Non c’è granché di solidale nel vendere un kg di pasta all’estero per decine e decine, se non centinaia di euro. Va bene la qualità, ma i consumatori italiani e stranieri non sono stupidi. Soprattutto, coloro che possono e vogliono permettersi di acquistare da Eataly non sono numerosi. Persino sugli scaffali del punto vendita alla periferia di Mosca, non a caso la generalità dei prodotti era rimasta invenduta per mesi e anni prima del cambio d’insegne. Neppure gli oligarchi si erano fatti fregare.

Eataly passa da Oscar Farinetti ad Andrea Bonomi

C’è da dire che Eataly non è più controllata dalla famiglia Farinetti e soci. Nel settembre scorso, Investindustrial di Andrea Bonomi è entrato nel capitale con 200 milioni di euro. Il fondo italiano ha rilevato il 52% e nei fatti azzererà l’indebitamento finanziario netto. Si è impegnato insieme ai soci storici di proseguire sulla strada della valorizzazione dell’attività, specie puntando sul suo potenziamento su mercati danarosi come il Nord America.

Ma è chiaro che al fondo s’impone l’esigenza di cambiare rotta, altrimenti non si vede come i numeri del bilancio possano cambiare.

Viene da chiedersi se Eataly abbia fatto più bene che male al Made in Italy. All’estero tutti ci riconoscono di essere la patria del buon cibo. I nostri pranzi e cene non hanno (per fortuna) niente a che spartire con le usanze del mangiare veloce e spesso poco sano che spesso dominano fuori dai nostri confini nazionali. Il concetto di “slow food” portato avanti da Farinetti per due decenni è stato senz’altro meritorio, le modalità forse un po’ meno. E’ passata l’idea che per mangiare sano e con gusto bisogna essere ricchi. E non è vero. Certo, rispettare la filiera nazionale e portare sugli scaffali e a tavola nei ristoranti all’estero i prodotti italiani comporta il sostenimento di costi non indifferenti. Tuttavia, certi prezzi parlano da sé.

Non è un mistero, infine, che la figura di Farinetti fosse associata a quella dell’ex premier Matteo Renzi per ragioni di amicizia. Anzi, Eataly fu l’immagine stessa del “renzismo”, accattivante, innovativa, “glocal” e, dati i risultati, anche molte chiacchiere e distintivo. Non basta alzare i prezzi per rendere un prodotto o servizio “cool”. Che poi sembra essere stata sin qui la filosofia dell’imprenditore piemontese, bocciata dal mercato.

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