E’ notizia della settimana scorsa del passaggio di consegne tra Oscar Farinetti e il fondo Investindustrial di Andrea Bonomi per il controllo di Eataly. Non è proprio avventura finita per l’imprenditore piemontese, che ci tiene a far sapere che resterà nel capitale della sua creatura, fondata diciotto anni fa. Manterrà una quota del 22%, a differenza di quando decise di uscire dal business di Unieuro, cedendo totalmente la sua partecipazione. Ma la vendita di questi giorni segna certamente il riconoscimento di un flop per colui che in Italia aveva portato e messo in pratica l’idea dello “slow food” grazie alla catena di risto-negozi intenti a valorizzare il Made in Italy.

Bilanci in rosso, flop FICO

La realtà ha preso il sopravvento. Nel 2021, Eataly chiuse il bilancio con una perdita netta di 22 milioni, salita a 31 milioni per i conti consolidati. Prima del Covid, aveva registrato un utile di 8 milioni, a fronte di un fatturato di 521 milioni, crollato a 353 milioni nel 2020 e risalito parzialmente a 464 milioni l’anno scorso. Nel frattempo, l’indebitamento finanziario netto è schizzato sopra 200 milioni, di cui 105 milioni verso Sace, la società del Tesoro specializzata nel sostegno all’estero delle aziende italiane.

Investindustrial pagherà 200 milioni di euro per rilevare il 52% di Eataly e il 40% di Eataly USA dalle famiglie Bastianich e Saper. Quest’ultima sarebbe così totalmente controllata dalla società madre. Ad oggi, incide ormai per il 60% dell’intero fatturato del gruppo. Farinetti ha spiegato la decisione di vendere con la necessità di fare entrare capitali freschi, necessari per rilanciare gli investimenti. In realtà, i 200 milioni versati da Bonomi serviranno ad abbattere il debito, ad esclusione di quello con Sace, oltre che per salire al 100% della controllata americana, come appena detto.

L’idea dello “slow food” era stata apprezzabile, ma non sempre realizzata con piglio imprenditoriale. Pensate all’allestimento di FICO, la Disneyland del cibo italiano a Bologna.

Un parco costruito d’intesa con Coop e inaugurato nel 2017, costato 140 milioni di euro e che ha prodotto solo negli ultimi tre anni perdite superiori ai 10 milioni. Per non parlare dei 44 negozi sparsi in 11 paesi del mondo, oltre all’Italia. Va bene far pagare il cibo italiano per quello che vale, ma il prezziario è risultato a volte ridicolo.

I prezzi folli nei negozi Eataly

Gira un video in rete di un famoso fotografo piemontese, Stefano Tiozzo, che è andato nei mesi scorsi a monitorare proprio i prezzi del negozio Eataly a Mosca, ceduto a terzi con l’uscita di Farinetti dal business in Russia. Sugli scaffali si potevano trovare confezioni di tagliolini al tartufo da 250 grammi per 2.699 rubli, pari a 48,40 euro al tasso di cambio attuale. Qualcosa come 192 euro al kg. Follia pura. E 3 litri di olio extra-vergine di oliva si potevano comprare per 5.499 rubli, circa 100 euro. E ancora: fusilli da 500 grammi in promozione per 799 rubli, “soltanto” 14,60 euro. Per un kg i russi dovrebbero spendere poco meno di 30 euro.

Guarda caso, persino la classe agiata russa sembra avere snobbato il negozio Eataly finché era rimasto aperto con le proprie insegne. Per la serie, “siamo ricchi, non stupidi”. Siamo sicuri che sia stata una buona promozione del Made in Italy o forse uno “slow food” così eccessivamente costoso non abbia dato l’idea all’estero di un marchio che vuole approfittare del buon nome del cibo italiano per spillare molti più soldi del dovuto ai clienti facoltosi? Non esattamente l’idea originaria di Farinetti, secondo quanto ci ha spiegato in tutti questi anni.

Fatale l’esitazione di Farinetti sull’IPO

Di certo c’è che se Farinetti avesse conosciuto il futuro, non avrebbe esitato prima della pandemia alla quotazione in borsa di Eataly. Se ne parlava sin dal 2014 sotto l’ex AD di Luxottica, Andrea Guerra.

L’azienda era stimata inizialmente 1 miliardo di euro e nel 2019 si confidava di valorizzarla a Piazza Affari per ben 2 miliardi. Con l’ingresso di Investindustrial, è sprofondata ad appena 400 milioni, meno del fatturato annuale. D’altronde, il modello di business attuale non garantisce margini di profitto degni di nota neppure tornando ai ricavi a pieno regime dell’era pre-Covid. Anni di spese pazze e forse una politica dei prezzi poco avveduta hanno reso lo “slow food” un affare per pochi e non profittevole.

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