Da questa spaventosa crisi fiscale in cui l’Italia sta precipitando, e per colpe certamente non sue, non ne usciremo con espedienti come i “Coronabond” o stratagemmi tecnici passanti per il Fondo salva-stati europeo. Sullo sfondo delle tensioni finanziarie, esplose nel 2011 con la tristemente famosa crisi dello spread, esiste una questione sinora mai affrontata di petto con piglio decisionista: il risparmio privato interno è elevatissimo, ma solo una porzione molto piccola di esso risulta investita ormai in BTp. Le famiglie italiane detengono meno del 5% del debito pubblico italiano negoziabile.

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Quando nacque il governo “giallo-verde”, l’allora economista e sottosegretario della Lega, Armando Siri, propose il lancio dei Conti individuali di risparmio (Cir), titoli di stato emessi a condizioni fiscali agevolate e che avrebbero dovuto attirare gli investimenti del retail domestico, creando domanda aggiuntiva sui mercati per il nostro debito. La proposta rimase teorica, anche perché quell’esecutivo si dimostrò privo di credibilità proprio dinnanzi al popolo dei risparmiatori, come nell’autunno del 2018 dimostrò il flop della primo asta di BTp Italia sotto il nuovo corso politico.

Banche e BTp

La questione di fondo resta la stessa: se quei 1.500 miliardi di euro ad oggi parcheggiati sui conti bancari infruttiferi venissero in buona parte investiti in BTp a rendimenti positivi, il debito pubblico italiano diverrebbe finalmente sostenibile. Del resto, una trentina di anni fa era assorbito quasi del tutto proprio dalle famiglie (Bot people), pur se a fronte di rendimenti anche a doppia cifra e che arrivarono a impattare per il 12% del pil nel 1993, il quadruplo di oggi. Ma non puoi certamente costringere un italiano a investire in titoli di stato, sarebbe un’azione in perfetto stile sovietico, con riflessi pesanti sulla percezione della libertà economica nel nostro Paese.

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E se nascesse un accordo stato-banche-BCE, tale da dribblare l’ostacolo? I soldi dei risparmiatori tenuti in un conto corrente o deposito servono alle banche per prestare denaro alle imprese e alle famiglie, così da maturarci un utile, dato dalla differenza tra interessi attivi e passivi.

Immaginiamo per un istante che di questi 1.500 miliardi, 1.000 miliardi venissero impiegati dalle banche per acquistare BTp. Con questa soluzione, l’intero debito pubblico italiano resterebbe nei confini della Nazione, lo spread non sarebbe quasi più un problema, perché il sistema-Paese riuscirebbe a garantire un suo rifinanziamento a costi contenuti. Ad esempio, a un interesse medio dell’1%, le banche riceverebbero annualmente utili complessivi per 10 miliardi.

Il problema sarebbe che le banche, così facendo, non avrebbero più liquidità sufficiente per prestare denaro al settore privato. Da qui, due possibili soluzioni, non necessariamente alternative tra loro: la BCE terrebbe per i prossimi anni aste Ltro a lungo termine, con le quali iniettare liquidità al nostro sistema bancario e a costi nulli o quasi (oggi vi applica tassi negativi) e che gli istituti userebbero per girarla a imprese e famiglie. E se le banche si mettessero direttamente a prestare BTp? Essi non sono altro che promesse di pagamenti futuri, un po’ come le cambiali che si emettono tra privati, ma prevedendo anche la corresponsione periodica degli interessi.

L’ingrediente essenziale della fiducia

Se i privati riponessero fiducia nel fatto che lo stato onererà sempre i suoi impegni, un’impresa potrebbe ricevere un prestito in forma di BTp e che a sua volta userà per pagare i suoi creditori, i fornitori, finanche i dipendenti, etc. Di fatto, questa sarebbe una moneta a tutti gli effetti, non alternativa all’euro e denominata in esso. Qualcuno noterà somiglianze con i cosiddetti “mini-bot” proposti da un altro leghista, Claudio Borghi.

Tuttavia, rileva una differenza dirimente: i titoli ipotizzati dal deputato sarebbero debito “aggiuntivo” e rischiano di impattare negativamente sui conti pubblici e sulla stessa fiducia del mercato verso la sostenibilità del debito. Qui, invece, avremmo lo stesso stock di debito che, anziché rimanere confinato nei cassetti degli investitori o scambiato sul mercato finanziario, diverrebbe liquidità a tutti gli effetti.

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Non ci sarebbe ragione per cui un italiano, ricevendolo in pagamento, dubiti che il valore nominale di 1.000 euro ivi indicati sia effettivamente tale. In teoria, i BTp verrebbero usati anche per pagare le tasse, tornando indietro allo stato, il quale o li annullerebbe o li rimetterebbe in circolazione per effettuare a sua volta pagamenti. Quanto al problema delle cedole, si risolverebbe come avviene tramite gli scambi tra privati oggi, cioè attraverso il trattenimento del rateo da parte di chi cede una massa di titoli come forma di pagamento. Certo, tecnicamente creerebbe più di un problema nella determinazione esatta del valore effettivo dei titoli ceduti, ma nel complesso resta immutato quanto appena descritto. Del resto, anche le banconote prestate da una banca non sono altro che una passività, cioè un debito della banca stessa verso chi le detiene.

Il presupposto essenziale, affinché i BTp diventino “spendibili” all’interno dei confini nazionali è la fiducia. Se gli italiani non confidassero nei titoli di stato come forma di pagamento da parte di altri privati, il castello di cui sopra crollerebbe in un attimo, anzi nemmeno si farebbe in tempo a costruirlo. Per questo, la soluzione tecnica individuata non potrebbe in alcun caso fare a meno di politiche fiscali credibili. Solo se i cittadini percepiscono che il loro governo sia responsabile e spenda i soldi in misura sostenibile, il debito pubblico verrà considerato sicuro e alla stregua di un pagamento attuale e certo, non correndo a scambiare i bond con banconote in euro per fare cassa immediatamente e deprezzandoli così in un attimo.

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