In principio fu Mario Draghi ad avere definito il debito pubblico, pur non tutto, “buono”. Non avrebbe potuto immaginare, forse, che con un anno abbondante di ritardo sarebbero stati i tedeschi ad andargli dietro. A Berlino tira un’aria profondamente diversa rispetto a quella che siamo stati abituati a respirare in tutti questi anni. Merito o colpa (scegliete voi) del nuovo corso politico, che vede la fine del lungo regno merkeliano e la nascita di una coalizione “semaforo” tra socialdemocratici, Verdi e liberali.

Ma non è solo la politica tedesca a parlare un linguaggio diverso. Klaus Regling, direttore del Meccanismo europeo di stabilità (MES), il temuto Fondo salva-stati europeo, ha avuto parole esplicite e sorprendenti sul tema: l’obiettivo del rapporto tra debito pubblico e PIL deve essere innalzato, anche perché il 60% è anacronistico e non rifletterebbe più le dinamiche macro. Rischia di provocare, spiega, problemi sia economici che politici. E aggiunge: il debito pubblico non può essere basso, altrimenti i mercati funzionano male. Gli investitori a caccia di “safe asset” rischiano di restarne a corto, con la conseguenza che i rendimenti calerebbero ulteriormente.

Un mix di “real politik” e pseudo-accorgimenti tecnici per giustificare il nuovo corso. Il dibattito nelle alte sfere in Europa, che vede coinvolti proprio i vertici del MES, prevede l’innalzamento dal 60% al 100% del rapporto debito/PIL massimo a cui tendere. Clamorosa è, poi, la svolta di Christian Lindner, prossimo ministro delle Finanze e a capo dei liberali dell’FDP. Considerato più “falco” dei cristiano-democratici uscenti sui temi fiscali, egli ha aperto a una politica più espansiva, tra l’altro finalizzata a sostenere gli investimenti su digitale e transizione ecologica.

Il basso costo del debito pubblico

La caduta di un tabù, insomma. Anche perché lo stesso Regling spiega che non ci sarebbe più tanto motivo per temere il debito pubblico, poiché adesso “costa poco”.

Lontani i tempi delle invettive tedesche contro gli stati “spendaccioni” del Sud Europa, di quel “i mercati insegneranno agli italiani come votare” pronunciato dall’allora commissario Guenther Oettinger nel 2018.

Ma realmente la Germania ha abbracciato lo “spandi e spendi” di marca italo-francese? Più che altro, si tratta di una resa alla realtà. Certo, la sinistra tedesca è sinceramente meno austera della destra, ma le ideologie sono meno di un dettaglio in questo caso. Berlino è consapevole che il Patto di stabilità dal 2023 non potrà essere riattivato così come lo avevamo lasciato prima della pandemia. Anzitutto, non è realistico, perché tutti sanno che paesi come Francia, Italia e Spagna, rispettivamente seconda, terza e quarta economia dell’Eurozona, non saranno mai e poi mai in grado di tendere al 60% del PIL entro qualche decennio.

Successivamente, imporre vincoli di bilancio stringenti dopo la pandemia rischia di alimentare tensioni politiche ancora più potenti di quelle pre-pandemiche tra stati come Italia e Commissione europea, nonché all’interno degli stati stessi. Questo non significa che i governi potranno fare ciò che vorranno. Dovranno, anzitutto, implementare riforme pro-crescita per uscire dalla spirale bassa crescita-debito-bassa crescita, grazie anche al denaro erogato con il Recovery Fund. E sarà con ogni probabilità monitorata maggiormente la qualità della spesa, per evitare che si facciano debiti per ragioni clientelari o assistenziali senza prospettive per l’economia nel medio-lungo termine. Infine, resta l’occhio vigile sull’inflazione. Dovesse rivelarsi non transitoria, bensì strutturale, cadrebbe il castello di carte su cui poggiano le aperture tedesche: il basso costo del debito, unica variabile a rendere possibile la comunanza d’intenti tra Nord e Sud Europa; questa sì transitoria.

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