C’è stato un lungo periodo della nostra storia recente in cui si faceva un gran parlare di un fenomeno tristemente noto ai contribuenti: il drenaggio fiscale o “fiscal drag” nella sua denominazione anglosassone. Non bisognava essere esperti fiscalisti per capire di cosa si trattasse. Ogni anno lo stato ci chiede di pagare le imposte sui redditi. Il loro versamento avviene generalmente mese per mese e in sede di dichiarazione dei redditi si effettua l’eventuale saldo. Tale imposta, che in Italia prende il nome di Irpef, è di solito progressiva.

In pratica, prevede aliquote crescenti con l’aumentare dei redditi dichiarati. Dunque, ad esempio, chi guadagna 50.000 euro lordi all’anno, non paga il doppio di Irpef rispetto a chi guadagna 25.000 euro. Ne pagherà di più per effetto di un’aliquota media più alta.

Drenaggio fiscale per mix tra inflazione e aliquote progressive

Sappiamo che questo sistema, che piace ai più in virtù della sua presunta equità fiscale, comporta molte storture. In effetti, disincentiva la produzione di reddito al margine tra uno scaglione e l’altro. Ma non è di questo che vogliamo parlare in questo articolo. La progressività delle imposte è causa di una vera beffa ai danni dei contribuenti per effetto dell’inflazione. Il combinato tra i due fenomeni dà vita per l’appunto al drenaggio fiscale. La spiegazione è semplice. Immaginate di avere percepito nel 2022 redditi per 50.000 euro e che nel 2023 il vostro reddito sia salito a 52.000 euro. Poiché sopra i 50.000 euro l’aliquota Irpef sale dal 35% al 43%, sugli ultimi 2.000 euro pagherete l’8% in più, cioè +160 euro (860 euro, anziché 700 euro).

Nel 2023, però, il vostro reddito è aumentato del 4% (2.000 rispetto a 50.000 euro), mentre l’inflazione è stata del 5,7%. Significa che siete diventati più poveri, non più ricchi. Invece, il fisco preleva da voi una porzione di reddito proporzionalmente più alta. Se ci pensate bene, si tratta di una iniquità a tutti gli effetti.

Un reddito più basso di prima viene tassato di più. Anche se fosse aumentato in linea con l’inflazione, sarebbe stato scorretto stangarlo. Deduciamo che solamente la parte di incremento del reddito sopra l’inflazione sarebbe dovuta essere sottoposta alla maggiore aliquota Irpef. Ma questo in Italia non avviene, perché non esiste alcun meccanismo automatico di tutela dei contribuenti dal cosiddetto drenaggio fiscale.

Legare scaglioni all’inflazione

La soluzione più ovvia consisterebbe nell’indicizzare gli scaglioni di reddito all’inflazione dell’anno passato, così da sventare sul nascere il pericolo di beffare i contribuenti. Nell’esempio da noi proposto, l’ultimo scaglione sarebbe dovuto partire nel 2023 da 54.050 euro, che è la rivalutazione dei 50.000 euro precedenti al tasso d’inflazione dell’8,1% registrato nel 2022. Pur con un minimo ritardo temporale, il contribuente sarebbe stato tutelato dalla perdita del potere di acquisto nei confronti dello stato. Guarda caso, il legislatore non ci ha mai sentito da questo orecchio.

Scure dell’inflazione sulle spese scaricabili in più anni

Un meccanismo simile al drenaggio fiscale si ha con le detrazioni Irpef pluriennali. Alcune spese, come quelle legate alle ristrutturazioni edilizie e gli acquisti di mobili ed elettrodomestici, si possono scaricare in più anni. Di recente, avrete letto che le spese per ristrutturazioni edilizie effettuate quest’anno saranno spalmate non più in cinque, bensì in dieci anni. Tutti vorremmo che, salvo problemi di incapienza, lo stato ci consentisse di detrarre le spese nei tempi più brevi possibili. A nessuno piace attendere anni prima di ottenere una somma di denaro. Ma non è solo il fattore tempo a pesare negativamente. Ipotizziamo di scaricare al 50% una spesa di 10.000 euro in dieci anni. Abbiamo diritto a detrarre dall’imposta 500 euro all’anno. Avete mai pensato che tale somma per via dell’inflazione varrà sempre meno?

Esempio di detrazioni Irpef pluriennali

Qui di seguito abbiamo ipotizzato un tasso annuo d’inflazione al 2% e successivamente al 4%.

Guardate cosa accade al valore reale della nostra detrazione:

  1. 500 euro – 490 euro – 481 euro
  2. 500 euro – 481 euro – 462 euro
  3. 500 euro – 471 euro – 445 euro
  4. 500 euro – 462 euro – 427 euro
  5. 500 euro – 453 euro – 411 euro
  6. 500 euro – 444 euro – 395 euro
  7. 500 euro – 435 euro – 380 euro
  8. 500 euro – 427 euro – 365 euro
  9. 500 euro – 418 euro – 351 euro
  10. 500 euro – 410 euro – 338 euro

Come potete vedere, dopo dieci anni i 500 euro varranno quanto 410 euro oggi con un’inflazione al 2%. Crolleranno a 338 euro con un’inflazione al 4%. Lo stato finge di restituirvi il 50% esatto della vostra spesa, ma nei fatti vi rimborserà molto meno di quanto promesso ufficialmente. La differenza di 90 euro nel primo caso e di 162 euro nel secondo se la mangia l’inflazione. Potremo comprare minori beni e servizi con quel denaro, per cui lo stato nei fatti ci sta tirando un mezzo bidone.+

Drenaggio fiscale problema grosso in futuro

Il drenaggio fiscale propriamente detto riguarda, come abbiamo precisato all’inizio, il mix tra inflazione e aliquote progressive. E’ un tema che si ripropone oggi dopo il boom dell’inflazione seguito a pandemia e guerra. Nei prossimi anni, tra costi legati alla transizione energetica e deglobalizzazione, i prezzi al consumo tenderanno verosimilmente a crescere a ritmi più sostenuti del periodo pre-Covid. E i rischi per i contribuenti aumenteranno. Senza saperlo, pagheranno più tasse come se si fossero arricchiti, rientrando via via negli scaglioni di reddito più alti.

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