Il premier Mario Draghi ha demolito verbalmente il Patto di stabilità, definendolo persino dannoso per le economie più fragili, a causa della sua natura pro-ciclica. Una posizione per niente scontata e che suggella la fine reale del sistema di regole fiscali vigenti in Italia sin dalla nascita dell’euro.

Il Patto di stabilità stabilisce fondamentalmente due imposizioni: che il deficit non possa superare il 3% del PIL e che il debito pubblico non possa eccedere il 60% del PIL. Per rendere concreto questo secondo obiettivo, nel 2012 i paesi dell’Eurozona firmarono il cosiddetto Fiscal Compact, un insieme di altre regole, di cui la principale obbliga i governi a tagliare ogni anno il rapporto debito/PIL di un ventesimo della quota eccedente il 60%.

Incontrando per la prima volta da cancelliere il presidente francese Emmanuel Macron, Olaf Scholz ha avvertito che crescita e stabilità fiscale debbano procedere di pari passo. In apparenza, la solita posizione della Germania. In realtà, il prossimo semestre di presidenza dell’Unione Europea, che sarà guidato proprio dalla Francia, sarà per Macron l’occasione per portare a casa un risultato assai ambito dagli stati del Sud Europa: la riforma del Patto di stabilità. In vista delle elezioni presidenziali di maggio, sarebbe un buon volano per la vittoria.

Patto di stabilità, le possibili novità

In quale direzione andrebbe la riforma? Niente più limite irrealistico del 60% per il debito. A dirlo sono persino i tedeschi, che con Klaus Regling, direttore del Fondo salva-stati, ha spiegato nelle scorse settimane che tale soglia non avrebbe più molto senso, dato che indebitarsi sui mercati ormai costa poco. Ma non sarebbe questa la vera novità, anche perché, se vogliamo essere franchi, oramai da anni quasi tutti i governi agiscono come se tale regola non esistesse neppure. La concessione a cui punta l’Italia riguarda il calcolo annuale del deficit: scorporo degli investimenti pubblici “green” e per altre finalità sostenute dal Next Generation EU.

Insomma, un Patto di stabilità più flessibile e che ponga finalmente l’accento sulla seconda parte della sua denominazione: la crescita. Bisogna fare in fretta, però. Salvo ulteriori proroghe, magari dettate dalla situazione sanitaria, il Patto di stabilità tornerà in vigore dal 2023. E dall’anno prossimo gli stimoli monetari della BCE saranno ridotti. E più di quanto si pensasse fino al board di questo giovedì. Niente più PEPP dopo marzo e acquisti di bond con il QE raddoppiati nel secondo trimestre, scalati a 30 miliardi nel terzo e tornati ordinari nel quarto. Sarà “tapering” vero.

Non è tutto. La BCE ha alzato le stime d’inflazione per il prossimo biennio: da 1,7% a 3,2% nel 2022 e da 1,5% a 1,8% nel 2023. In due anni, +1,8%. E’ tanto, anche perché non è detto che tali previsioni non saranno riviste ulteriormente al rialzo. E se anche giovedì il governatore Christine Lagarde ha escluso un rialzo dei tassi per l’anno prossimo, ci sarà tempo per cambiare idea man mano che l’inflazione continuerà a mordere. L’Italia non può permettersi di rimanere scoperta sul piano delle regole fiscali, mentre Francoforte restringe le condizioni monetarie. Rischierebbe un nuovo 2011, pur eventualmente più soft. Nel migliore dei casi, tornerebbe ad essere un’osservata speciale. Draghi ha l’intenzione e l’occasione di porre fine a questa eccezione infausta.

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