Cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia. Non in politica, dove lo “switch” tra due poltrone non lascerebbe intatto il risultato. Christine Lagarde passerà dal novembre prossimo dalla carica di direttore generale del Fondo Monetario Internazionale a quella di governatore della BCE, oggi occupata dall’italiano Mario Draghi. E questi cosa farà? Dove andrà? Speculazioni vorrebbero che dall’autunno vada a prendere proprio il posto della francese a Washington, ponendosi a capo dell’istituto di maggiore prestigio al mondo nel panorama finanziario.

Decisivo sarebbe il placet degli USA, che con il presidente Donald Trump nelle scorse settimane ha avuto parole di elogio verso Draghi, sostenendo che “dovremmo assumere lui alla Fed al posto di Powell”.

Draghi costringe il successore a tenere l’Italia nell’euro

Non sarà facile per il banchiere centrale sbaragliare la concorrenza. In teoria, la poltrona spetta a un europeo, così com’è sempre stato sin dal 1944, l’anno della fondazione dell’FMI. Tuttavia, già all’atto della prima elezione della Lagarde, i paesi emergenti avevano puntato i piedi, reclamandone la guida e minacciando altrimenti di crearsi un ente proprio. Eppure, la stessa fu in grado 5 anni dopo, cioè nell’estate del 2016, di farsi rieleggere per un secondo mandato. Staranno a guardare ancora una volta o grandi economie come Cina, Russia, Turchia, India, Messico e Brasile tenteranno di far valere il loro peso?

Draghi all’FMI, Italia ai vertici internazionali

Se Draghi ce la facesse, sarebbe un’ottima notizia per l’Italia. Lo scambio di poltrone con Lagarde non lascerebbe immutati gli equilibri. La francese a Francoforte proseguirebbe il lavoro dell’italiano, per cui dovrebbe andare avanti con una politica di bassi tassi e il varo di nuovi stimoli monetari. L’italiano a Washington porterebbe una visione più equilibrata sul caso Italia, quando poche settimane fa proprio l’FMI ha definito il nostro Paese “un rischio sistemico per l’Eurozona”.

Pregiudizi verso Roma, frutto perlopiù dell’ignoranza e dei sentito dire, avrebbero modo di venir meno. I nostri dati macro verrebbero forse letti finalmente con senso di equilibrio, un po’ com’è avvenuto nell’ultimo decennio con la Francia, per la quale nessuno ha messo in dubbio la sostenibilità finanziaria, malgrado il boom del debito pubblico al 100% del pil e i cronici disavanzi primario, commerciale e corrente. E avere avuto un proprio uomo ai vertici delle istituzioni internazionali avrà aiutato non poco. Come abbiamo più volte sostenuto, il problema dell’Italia è, anzitutto, di percezione e la debole percezione è dovuta sia alla scarsa conoscenza, sia all’assenza di nostri connazionali che occupino posizioni di rilievo nel panorama internazionale che conta.

E se il debito pubblico italiano fosse più solido di quello francese?

All’America di Trump non dovrebbe dispiacere un Draghi a capo dell’FMI, in quanto da Washington egli propugnerebbe quelle politiche di espansione monetaria e di flessibilità fiscale che proprio la Casa Bianca oggi vede di buon occhio. Probabile, invece, che la reazione negativa arrivi dal Regno Unito, tra i principali azionisti e membri del board dell’istituto, a causa del profilo “ultra-europeista” dell’italiano. E per una Londra in corso di separazione dalla UE, sarebbe quasi un affronto. Anche la Germania avrebbe da ridire, perché dopo avere dovuto rinunciare alla BCE, dovrà cercare di piazzare il suo Jens Weidmann da qualche parte e l’FMI sarebbe proprio il posto giusto per risarcire il governatore della Bundesbank.

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