Buttarla in caciara non serve a nessuno, tanto meno esaminare il fenomeno dei contratti derivati sul piano prettamente giudiziario, com’è tipico in Italia, quando si cerca di lavarsi la coscienza dagli errori commessi, attribuendoli all’ultimo tra i funzionari che si trovi a passare. Tuttavia, che sul debito pubblico sia caduta una scure da 25,3 miliardi di euro nel quadriennio 2015-2018 (4,7 miliardi nel solo 2018) ci porta a interrogarci sulla lungimiranza del Tesoro nel pur lodevole tentativo di proteggere i conti pubblici da rischi futuri.

Due sono essenzialmente quelli che gravano sulle tasche dei contribuenti: di cambio, in relazione alle (poche) emissioni di BTp in valuta straniera (dollari); di tasso, quando i rendimenti delle emissioni salgono per effetto delle condizioni mutate sul mercato, aumentando la spesa per interessi.

Debito pubblico risale e scoppio lo scandalo derivati 

Al 31 marzo scorso, il nozionale coperto dai vari contratti derivati accesi dal Tesoro con controparti finanziarie (banche) ammontava a 110 miliardi di euro, di cui l’82,4% (90,7 miliardi) legato a cosiddetti “Interest Rate Swaps” (IRS) di duration, espressione assai infelice, non fosse altro perché trattasi nella sostanza di ordinari IRS di copertura dal rischio tassi, per cui non si vede una concreta ragione di questa distinzione effettuata dal Ministero dell’Economia. La sostanziale differenza sta nella seguente considerazione: i rendimenti crescono lungo la curva delle scadenze, per cui se allunghi la durata media del debito, anche il costo della raccolta sale, ma lo stock viene sottratto alle variazioni dei tassi di mercato nel breve.

Con l’ingresso nell’euro, l’Italia dovette limitare la spesa per interessi, così da abbassare il deficit. Poiché l’obiettivo appariva in contraddizione con quello di consolidare l’alto debito, si fece uso intenso di questi IRS di duration: il Tesoro avrebbe pagato tassi a lungo alle banche e le banche gli avrebbero corrisposto tassi a breve.

Se questi fossero aumentati, la spesa per interessi sarebbe stata frenata proprio dagli esborsi netti negativi del Tesoro sui derivati, grazie alla copertura di parte del debito, viceversa sarebbe cresciuta ancora di più. E’ questo secondo scenario che sta accadendo negli ultimi anni con l’azzeramento dei tassi BCE e il conseguente crollo dei rendimenti.

L’effetto al rovescio dei derivati sui conti pubblici

Di cosa parliamo? I derivati di cui sopra altro non sono che contratti speculativi, con cui una parte cerca di assicurarsi verso l’altra dal rischio di un aumento dei tassi. Come? Paga alla controparte flussi di interessi fissi e riceve flussi di interessi variabili. Se i tassi salgono, riceverà più di quanto avrà versato, per cui beneficerà di un incasso netto positivo. Se i tassi scendono, avrà versato di più di quanto non incasserà, con la conseguenza che subirà un esborso monetario netto. E’ quanto accaduto al nostro debito negli ultimi anni: è stato assicurato contro il rialzo dei tassi, ma questi sono scesi e il costo delle operazioni sui derivati risulta così ingente. In altre parole, avremmo potuto risparmiare la media di quasi 6 miliardi all’anno di interessi nei 4 anni passati, se non ci fossimo assicurati contro un rischio rivelatosi inesistente, almeno nel medio termine.

Derivato su debito pubblico non sono una truffa, ma bisogna saperli usare

Anche Germania e Francia hanno subito perdite dal crollo dei tassi, ma nettamente inferiori a quelle dell’Italia, cioè pari a 3 miliardi a testa per l’intero quadriennio. Ciò si deve al fatto che il Tesoro di Roma ha dovuto nei decenni assicurarsi in misura ben più consistente dai rischi, data l’enorme mole dello stock, salito a poco meno di 2.000 miliardi al 31 marzo di quest’anno. Ma le mutate condizioni di mercato ha indotto nell’aprile di 4 anni fa il Tesoro a uscire gradualmente dalle posizioni in essere (“phasing out”), visto che si stanno rivelando costose per i nostri conti pubblici, a fronte di un nozionale assicurato pari ad appena il 5,5% del debito totale.

Senza voler per questo condannare a priori la gestione del debito tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, il caso è diventato emblematico per la sua dimostrazione che vincolarsi con contratti finanziari a lungo termine equivale a sottoporsi a rischi potenzialmente superiori alla protezione ricevuta nella fasi avverse, perché nessun esperto sarà mai in grado di prevedere cosa possa accadere ai tassi o ai cambi da qui a 10, 20 o 30 anni. Figuriamoci lo stato!

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