Anche il mese di settembre porta buone nuove sul debito pubblico italiano. Il fardello a carico di tutti noi contribuenti è sceso di 16,2 miliardi a 2.741,6 miliardi di euro. Il dato emerge dal Supplemento finanziario al Bollettino statistico mensile della Banca d’Italia. Le amministrazione pubbliche hanno registrato nel mese un fabbisogno finanziario di 13,8 miliardi, ma il deficit è stato più che coperto dalla riduzione delle disponibilità liquide del Tesoro per 31,9 miliardi. Inoltre, tra scarti di emissione, rivalutazione dei titoli di stato sulla base dell’inflazione e variazioni dei tassi di cambio c’è stato un impatto negativo di 1,9 miliardi sullo stock.

Dunque, è successo questo: il debito pubblico a settembre è sceso perché il Tesoro ha ridotto ancora una volta le scorte di liquidità accumulate nella prima metà dell’anno. Esse risultano scese a 48,1 miliardi, pur sempre sopra i 47,5 miliardi di fine 2021. Questo significa anche che, con ogni probabilità, d’ora in avanti fino al mese di dicembre non ci sarà più alcun impiego della liquidità residua. Lo stock varierà grosso modo sulla base del rapporto tra entrate fiscale e spesa pubblica.

Su base annua, il debito pubblico è cresciuto di 35,2 miliardi, ma a parità di disponibilità liquide, l’aumento risulta essere stato di 83,4 miliardi. Parliamo di un trend di +6,95 miliardi al mese, 228,49 milioni al giorno, 9,5 milioni l’ora, 158.676 euro al minuto e, infine, 2.645 euro al secondo. Praticamente, lo stato italiano continua a indebitarsi al ritmo di uno stipendio lordo medio mensile di un lavoratore italiano ogni secondo.

Debito pubblico +63 miliardi in 9 mesi

Questi numeri sono confermati anche dal trend dei primi nove mesi del 2022, nel corso dei quali il debito pubblico è cresciuto di 63,2 miliardi (+62,6 miliardi, a parità di disponibilità liquide). E l’Ufficio di bilancio parlamentare ha stimato per il 2023 le emissioni di titoli di stato per ben 383 miliardi di euro, in crescita di 69 miliardi su quest’anno.

Al netto delle scadenze, restano da finanziare 42 miliardi (dai 37 miliardi del 2022).

Non sarà facile attirare ordini dal mercato, considerato che non disporremo più degli acquisti netti della BCE. Anzi, dall’anno prossimo è verosimile che Francoforte non riacquisti più almeno parte dei bond in scadenza (cd “quantitative tightening”), accrescendo l’offerta di titoli di stato italiano e contribuendo al loro ulteriore deprezzamento. Lo scenario peggiore sarebbe nel caso in cui una quota del debito pubblico fosse, addirittura, rivenduta dall’istituto per drenare liquidità sui mercati e contrastare così l’inflazione.

Ricordiamo che alla fine di settembre Bankitalia deteneva il 26,1% del debito pubblico italiano, la cui durata media complessiva è salita a 7,7 anni. Sono numeri da fare tremare i polsi. Quando parliamo di misure in deficit, dovremmo anzitutto chiederci cosa ne pensino gli investitori. Saranno essi a doverci prestare i denari per portare avanti le misure di politica economica adottate dal governo. Ma la loro disponibilità non è infinita, tra l’altro limitata dalla percezione del rischio sovrano. Prima o poi, le case d’investimento non vorranno più sentirne di finanziare un sistema Paese incapace di crescere e che continua a spendere ben oltre le proprie possibilità.

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