E’ passato al Senato con 78 voti a favore, nessuno contrario e 62 astenuti. Le opposizioni hanno deciso di non contrastare l’approvazione del Ddl Capitali, che adesso passa al vaglio della Camera in seconda lettura prima di essere trasformato in legge. Il governo conta di riuscirci entro la fine dell’anno, data la sostanziale unanimità parlamentare e pur nel corso della sessione di bilancio.

Qualcuno l’ha definita una norma “salva Caltagirone”, visto che uno dei principali beneficiari sarebbe Francesco Gaetano Caltagirone, imprenditore delle costruzioni e che edita il quotidiano Il Messaggero.

Tuttavia, il Ddl Capitali, se approvato, non entrerà in vigore prima del 2025 e, pertanto, non esiste modo di influire sull’assemblea degli azionisti di Mediobanca, che si terrà questo sabato 28 ottobre. Proprio Caltagirone sta conducendo una battaglia insieme agli eredi di Leonardo Del Vecchio contro la lista del CDA.

Riforma liste CDA dà peso alle minoranze

Effettivamente, il Ddl Capitali avrebbe effetti sui rinnovi dei board di importanti società nei prossimi anni, a partire da Generali, controllata da Mediobanca e in cui sono presenti anche qui sia la famiglia Del Vecchio che il Gruppo Caltagirone. Vediamo cosa comporta la riforma del Parlamento. Essa interviene sulle liste del CDA, vale a dire sulla pratica dei board uscenti di nominare i successori. In genere, ciò avviene senza polemiche e tensioni quando si ha un azionariato diffuso e i piccoli soci non sono granché interessati alla governance, bensì alla remuneratività dell’investimento.

I problemi nascono quando l’azionariato è composto da soci stabili e di certe dimensioni. E’ proprio il caso di Mediobanca e Generali. Nella prima, Caltagirone detiene il 5,6% delle azioni e Del Vecchio poco meno del 20%. La nuova normativa contenuta nel Ddl Capitali stabilisce che le liste del CDA debbano essere presentate a maggioranza dei due terzi dei componenti. Inoltre, i candidati devono essere pari ai seggi da rinnovare aumentati di un terzo.

Questo al fine di consentire all’assemblea degli azionisti di votare i candidati uno ad uno e non più secondo lo schema “prendere o lasciare”. Le liste che hanno ottenuto almeno il 20% dei voti parteciperanno alla ripartizione dei seggi in proporzione al loro peso e posto uno sbarramento del 3%.

La conseguenza di questa nuova disciplina sarebbe l’assegnazione di un maggiore peso alle minoranze e l’indebolimento del potere di nomina dei CDA uscenti. Non è un caso che il Ddl Capitali non abbia trovato opposizione in Parlamento. Serve a ridare vigore agli azionisti stabili, riducendo il potere degli investitori speculativi, perlopiù fondi stranieri mordi e fuggi.

DDl Capitali, voto plurimo arma a doppio taglio

C’è una seconda previsione non meno importante. Le società potranno inserire nello statuto l’emissione di azioni con voto plurimo, cioè fino a 10 diritti di voto in assemblea per ciascun titolo posseduto e a favore degli azionisti stabili, cioè che siano presenti nel capitale da tempo e fino a 10 anni. L’intento sarebbe di frenare o arrestare la fuga delle società in Olanda, dove il diritto societario consente ai fondatori e ai soci di peso di mantenere il controllo pur riservandosi una quota di minoranza nel capitale. Questo aspetto diventa ancora più importante in vista delle privatizzazioni annunciate dal governo. Esso potrà vendere parte delle proprie quote sul mercato senza necessariamente rinunciare al controllo delle aziende.

Se la riforma sulle liste del CDA assegnano senza dubbio maggiore importanza alle minoranze, il voto plurimo rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio per l’appeal del sistema finanziario italiano. Esso fa sì che le minoranze abbiano scarso potere di incidere sulla governance, a meno che non siano presenti da tempo nel capitale. In ogni caso, i soci fondatori avrebbero un vantaggio sui nuovi arrivati.

E questa è spesso la ragione per cui molte aziende italiane restano a gestione familiare, sottocapitalizzate e poco interessanti per i capitali privati.

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