E’ bastato l’annuncio di una proroga di due settimane per portare in banca le banconote da 100 bolivar, che il governo metterà definitivamente fuori corso legale dal prossimo 3 gennaio, che al mercato nero il dollaro ha rialzato la testa del 10% in poche sedute, dopo essere sceso del 40% in appena una settimana, a seguito dell’assenza di liquidità in Venezuela. La crisi è diventata spaventosa; non si trova di nulla nei negozi da tempo, ma adesso non c’è nemmeno la possibilità di comprare quel poco che anche si vende, non essendosi abbastanza bolivar in circolazione.

I tagli da 100 rappresentavano, infatti, il 48% dell’intero cash del paese andino.

Le riserve valutarie sono bassissime, pari ad appena 11 miliardi di dollari, insufficienti a consentire a Caracas di importare beni dall’estero, così come a onorare tutte le scadenze sul suo debito sovrano. Per quanto ci si attenda una risalita dell’ingresso di dollari nei prossimi mesi, grazie alle maggiori quotazioni del petrolio, il calo della produzione interna potrebbe più che compensare tale miglioramento atteso. In ogni caso, qualche dollaro in più non segnerebbe la svolta nell’economia venezuelana. (Leggi anche: Venezuela, banconote 100 bolivar valide al 2 gennaio)

Perché il default nel Venezuela non arriva?

In un qualsiasi altro paese, il governo dichiarerebbe default, un evento traumatico, ma sempre meglio di portare allo stremo fisico la popolazione, costretta a sobbarcarsi anche il peso di svariate ore di fila al giorno per fare la spesa e che da settimane non riesce più ad avere sufficiente denaro contante per gli acquisti.

Come mai, proprio il governo “chavista” di Nicolas Maduro, che si rifà ai cardini del pensiero economico socialista, sembra ossessionato dalla paura di dichiarare default? Non dovrebbe preferire una ristrutturazione del debito pubblico, anziché imporre a 30 milioni di cittadini restrizioni economiche inaccettabili? (Leggi anche: Default Venezuela evitato ancora, ma rischio esplosione della crisi)

 

 

 

 

Con default sarebbe la fine del socialismo chavista

Non esiste una spiegazione logica imperante per l’atteggiamento di Caracas in questi ultimissimi anni, che sembra davvero essere scriteriato.

Presumiamo quanto segue: Maduro tiene sopra a ogni altra cosa la conservazione del modello bolivariano del “paradiso socialista”. Teme che con il default, la costruzione di tale modello, iniziata nel 1999 con l’arrivo al potere di Hugo Chavez, venga meno. Perché?

Immaginiamo che Caracas annunci il default, saltando una scadenza e chiedendo ai creditori la ristrutturazione del debito. Nessuno presterebbe più denaro al governo venezuelano; già oggi lo fa a rendimenti imbarazzanti, pari quasi al 50% per le scadenze a un anno. Gli obbligazionisti si riunirebbero per pretendere condizioni migliori possibili in fase di rinegoziazione del debito, mentre il paese, che già monetizza parte della spesa pubblica, sarebbe costretto ad affidarsi agli aiuti del tanto odiato Fondo Monetario Internazionale.

Cosa pretenderebbe l’FMI

Questi concederebbe aiuti a Caracas, ma dietro il consueto menù di politica economica, che si fonda su cinque punti: politiche fiscali restrittive (taglio alla spesa pubblica e/o aumenti delle tasse), politiche monetarie restrittive (aumenti dei tassi contro l’inflazione), svalutazione del cambio e fissazione di una nuova parità, liberalizzazione commerciale e liberalizzazione finanziaria.

Questi punti segnerebbero la fine del chavismo, il ritorno a un’economia di mercato, attraverso privatizzazioni e apertura ai commerci con il resto del mondo, mentre il governo dovrebbe votarsi all’austerità fiscale, scontentando almeno parte della popolazione. (Leggi anche: Venezuela, fame dilagante: default molto probabile)

 

 

 

 

E gioca un ruolo anche la speculazione di pochi

Ora, in un paese che un anno fa ha votato a stragrande maggioranza il fronte delle opposizioni, assegnando loro più dei due terzi dei deputati all’Assemblea Nazionale, non si capisce cos’altro avrebbero da perdere gli esponenti socialisti al governo, la cui popolarità è praticamente inesistente.

Ecco, allora, che ci potrebbe venire in soccorso un’altra spiegazione, non necessariamente alternativa a quella appena esposta, bensì complementare. I tassi ufficiali di cambio multipli esistenti stanno garantendo a pochi esponenti vicini al governo, ovvero politici, burocrati e militari, rendite speculative ingenti. Quei pochi “fortunati”, che riescono ad accedere ai dollari, tramite il cambio fisso di 1:10, con 100 bolivar – supponiamo – ottengono 10 dollari. Una volta rivenduti al mercato nero, quei 10 dollari diventano fino a 46.000 bolivar, mentre all’altro cambio legale e semi-privato, il Dicom, si tramutano in non meno di 6.700 bolivar e senza incorrere in alcun reato.

Dunque, la situazione attuale, per quanto possa tenere ai limiti della miseria 30 milioni di abitanti, crea abbondanti prospettive per un nucleo ristretto di persone, l’establishment, che riesce a mettere a segno a un rendimento fino a oltre 400 volte l’investimento. Non è difficile capire il perché a non avvertire alcuna voglia di cambiamento siano solamente gli ambienti governativi.