Puoi ancora consumare un pasto al fast food per 2 euro o una birra da 33 cl per 1,40 euro, ma non farti ingannare dai prezzi dopo il cambio: la Turchia è diventata carissima per i suoi abitanti. A marzo l’inflazione è salita ancora al 68,5%, ma i prezzi dei generi alimentari hanno fatto ancora peggio: +70,41% in un anno. In appena tre anni, risultano essere esplosi del 387%, praticamente quintuplicati. Secondo le analisi indipendenti, il boom sarebbe stato ben maggiore. In ogni caso, i beni di prima necessità sono rincarati più della media nell’ultimo triennio.

L’indice generale a marzo segnava, infatti, +309% rispetto allo stesso mese del 2021. E la cattiva notizia è che la crisi turca sembra tutt’altro che giunta alla fine.

Nel pieno della crisi turca

La sconfitta del partito del presidente Recep Tayyip Erdogan alle elezioni amministrative di domenica scorsa ha svelato quanto profondo sia il malessere tra i turchi. E’ stata la prima dal suo avvento al governo nel lontano 2002. Persino le roccaforti gli hanno voltato le spalle a questo giro. Il costo della vita si è impennato dopo che il “sultano” si è messo a pasticciare con la politica monetaria. Voleva fare di Ankara una piccola Pechino alle porte d’Europa, ma per il momento assomiglia più a un’Argentina in fiamme.

Agli inizi del decennio scorso, un dollaro Usa valeva ancora solo 1,50 lire; adesso, più di 32. Basta questo dato per capire cosa sia successo in questi anni. Erdogan ha licenziato un governatore centrale dopo l’altro per ottenere tassi bassi e stimolare così il credito all’economia. Ha ottenuto una crescita del Pil sopra 1.100 miliardi di dollari, ma a spese della stabilità dei prezzi interni e del cambio. L’anno scorso, la bilancia commerciale continuava a chiudere in fortissimo passivo, a circa -10% del Pil. Il deficit corrente, che include i movimenti dei capitali, segnava anch’esso un pesante -4,1%.

Tassi più alti e lira turca ancora più debole

Questi numeri ci dicono che i dollari continuano a defluire dalla Turchia e le riserve valutarie, dopo essere risalite nella seconda metà dell’anno passato, da mesi ripiegano ad una velocità impressionante. Ammontavano a 97,6 miliardi di dollari a dicembre, erano a 68,8 miliardi a fine marzo. Al netto delle operazioni swap, a fine febbraio risultavano negative per 28,5 miliardi. Il dato, pur molto migliore dai -57 miliardi di dicembre, segnala la grave crisi in cui versa l’economia turca. Senza una ripresa stabile delle riserve, indicativa dell’equilibrio commerciale e finanziario con il resto del mondo, non sarà possibile cessare la stretta sui tassi di interesse.

A proposito di tassi, a febbraio la banca centrale aveva smesso di aumentarli, lasciandoli al 45%. E’ stata costretta a portarli al 50% a marzo, dato che l’inflazione non ha accennato a ripiegare. Altri aumenti seguiranno. Piaccia o meno, servirà strozzare ancora un po’ il credito per deprimere la domanda interna e, quindi, le importazioni. Solo così ci potrà essere un po’ di sollievo per la lira turca, che nell’ultimo anno perde oltre il 40% contro il dollaro. Non proprio prospettive entusiasmanti per le famiglie. Il salario minimo legale è stato aumentato a circa 17.000 lire al mese, pari a 490 euro. Non regge il passo con l’aumento del costo della vita.

Necessaria una stretta fiscale

E prima o poi anche il governo dovrà fare la sua parte. Il deficit fiscale nel 2023 è salito al 5,4% dal 2,8% del 2022 a causa delle spese per la ricostruzione post-terremoto. E’ atteso al 5,2% per quest’anno. Questi “buchi” di bilancio finiscono per infiammare l’inflazione, alimentando la domanda interna. Lo sa il ministro delle Finanze, Mehmet Simsek, che sin dal suo ritorno alla carica nella primavera passata ha promesso l’adozione di una politica economica ortodossa contro la crisi turca.

Tassi più alti, tagli alle spese, forse aumenti delle imposte e ulteriore svalutazione del cambio saranno i prossimi passi. Per ancora altri mesi i prezzi al consumo saliranno ulteriormente e nel frattempo l’economia potrebbe frenare o sfociare apertamente nella recessione per effetto del contraccolpo ai redditi. Erdogan ha davanti a sé altri quattro anni senza sfide elettorali di rilievo per permettersi anche un’ondata di impopolarità, se crede che serva a risollevare le sorti dell’economia.

Crisi turca si aggraverebbe con taglio dei tassi prematuro

Non potendosi ricandidare nel 2028 per un terzo mandato, il rischio è che dall’interno del suo partito – l’islamico-conservatore Akp – i pretendenti alla successione reclamino un cambio di rotta sui tassi per sperare di imporsi alle prossime elezioni. Sarebbe devastante per la crisi turca e la credibilità di Ankara sui mercati. Gli investitori le toglierebbero definitivamente la fiducia. E per i turchi arriverebbero tempi ancora più drammatici.

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