Il nuovo governatore della banca centrale turca, Sahap Kavcioglu, ha smentito che il taglio dei tassi al board di aprile sia un dato certo, sostenendo che si atterrà a una valutazione non pregiudiziale e che manterrà un tasso d’interesse unico ai fini della politica monetaria, non volendo così smantellare una misura apprezzatissima dai mercati e varata dal predecessore. Nominato il 19 marzo scorso, egli sa che il suo insediamento ha scatenato il collasso della lira turca, che ieri si è portata contro il dollaro in area 8,20, perdendo oltre il 13% in poco più di una settimana di negoziazioni.

I rendimenti sovrani stessi sono esplosi, con la scadenza a 10 anni al 18,85% e quella a 2 anni al 18,57%. Il motivo è semplice: tutti sanno che il presidente Erdogan ha licenziato il terzo governatore in poco più di un anno e mezzo per ottenere tassi d’interesse più bassi. Questa ennesima virata della policy riduce l’appeal del cambio e foraggia la già alta inflazione. In previsione di una sua ulteriore accelerazione, gli obbligazionisti vendono bond e possibilmente escono dal Paese.

Dopo qualche mese di silente accettazione della stretta monetaria, con l’ex governatore Naci Agbal ad avere alzato il costo del denaro di 875 punti base in quattro mesi al 19%, Erdogan è tornato a pretendere l’allentamento per sostenere l’economia domestica e, fate attenzione, per combattere l’inflazione. Contrariamente a quanto asserisce la teoria economica, egli crede che gli alti tassi provochino inflazione, ragione per cui si auto-proclama suo fiero nemico. A suo dire, se il denaro costa troppo, le imprese non investono e così l’offerta futura di beni e servizi si riduce, alimentando la corsa dei prezzi al consumo.

Erdogan licenzia l’ennesimo governatore in pochi mesi, Turchia a rischio collasso finanziario

L’inversione a U di Erdogan dopo il primo decennio

Erdogan ignora che tassi reali bassi o, addirittura, negativi sono causa di deflussi dei capitali, i quali a loro volta indeboliscono il tasso di cambio e innalzano il costo dei beni e servizi importati, provocando inflazione.

In più, l’aumento degli investimenti sostenuto dai bassi tassi (reali) finisce con il surriscaldare la domanda interna aggregata, spingendo in alto i prezzi e “surriscaldando” le aspettative d’inflazione anche per il futuro, quando secondo Erdogan i prezzi dovrebbero almeno stabilizzarsi per effetto dell’accresciuta produzione. Infine, se la banca centrale non ispira fiducia circa la sua effettiva capacità di mantenere la stabilità dei prezzi, le imprese hanno difficoltà a programmare, non conoscendo quali possano essere i prezzi di vendita dopo alcuni mesi o qualche anno. Voi spendereste fior di quattrini per comprare macchinari costosi e produrre un dato bene, se non riuscite a capire a quanto lo potreste vendere?

Negli ultimi 5 anni, l’indice dei prezzi al consumo in Turchia è salito dell’80%. Nello stesso arco di tempo, nell’Eurozona si è mosso di poco e così anche negli USA, tanto per fare un confronto con le principali economie mondiali. Naturale che la lira sia crollata dell’80% in 10 anni contro il dollaro. E da un lato, il suo indebolimento scoraggerebbe le importazioni e sosterrebbe le esportazioni, dall’altro finisce per provocare l’aumento dei costi di produzione (si pensi alle materie prime importate), rendendo l’economia turca meno competitiva, anziché di più. Di fatto, Ankara registra un deficit cronico sia della bilancia commerciale che delle partite correnti, segno che nel complesso importa più beni, servizi e capitali di quanti ne esporti.

Per circa un decennio, Erdogan era riuscito nell’impresa di modernizzare la Turchia, tra l’alto contrastando l’inflazione a due cifre e ricevendo le lodi ufficiali della Banca Mondiale per la sua capacità di triplicare il PIL in una decina di anni.

L’inversione di tendenza si è avuta nell’ultimo quinquennio, in particolare, quando da presidente illuminato ha mostrato un volto ben meno tollerante verso gli oppositori interni e ostile agli alleati della NATO, seminando tensioni geopolitiche a iosa nel Mediterraneo. Gli investitori hanno preso nota e si sono mostrati più cauti nell’investire in Turchia, anche perché nel frattempo la cosiddetta Erdonomics si caratterizzava per erraticità e contrasto tra provvedimenti e obiettivi dichiarati, nonché per l’erosione dell’autonomia sino ad allora garantita a organismi non politici come la banca centrale. Dopo qualche speranza riaccesasi nel novembre scorso, all’atto della nomina di Agbal, il mercato sembra avere del tutto perso fiducia verso Ankara. Il sultano adesso non è più garanzia di buona gestione dell’economia. Anzi.

Come ha fatto la lira turca a perdere l’80% in 10 anni

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