Le pensioni restano un tema centrale di questa manovra di bilancio. Tra imminente debutto di Quota 103, aumento delle minime e taglio della rivalutazione per gli assegni più alti, le polemiche non mancano. E non può essere diversamente, riguardando la carne viva degli italiani. Per chi si accingesse ad andare in pensione nel 2023 è in arrivo una notizia non proprio positiva e che riguarda i contributi INPS versati. Ci sarà un piccolo taglio. Per capire di cosa parliamo, dobbiamo addentrarci in dettagli tecnici.

Cercheremo di spiegarli nella maniera più semplice possibile.

Come si calcola la pensione

Quando vai in pensione, l’assegno che percepisci mese per mese è determinato per la quota liquidata con il metodo contributivo dal cosiddetto montante contributivo. In pratica, si prendono tutti i contributi INPS versati e su di essi si applica un calcolo percentuale in base all’età di uscita dal lavoro. Più è alta, maggiore la percentuale o “coefficiente di trasformazione“.

Ma i contributi INPS sono stati versati nell’arco di vari decenni. E chiaramente devono essere rivalutati anno dopo anno, altrimenti prenderemmo tutti pensioni da fame. Ad esempio, se nel 1996 ho versato 4 milioni di lire, cioè circa 2.000 euro, è naturale che questa somma debba essere rivalutata fino alla data del pensionamento. Ebbene, è quanto avviene annualmente: i contributi INPS sono rivalutati in percentuale pari al tasso di crescita nominale del PIL medio nel quinquennio passato.

Rivalutazione contributi INPS al 2021

Per chi andrà in pensione nel 2023, il montante da rivalutare sarà quello accumulato fino alla fine del 2021. L’ISTAT ha fissato il tasso di crescita medio del PIL italiano nel lustro 2017-2021 allo 0,9973%. In teoria, questo significa che i contributi INPS al 31 dicembre 2021 andrebbero moltiplicati per il coefficiente 1,009973. Ma non sarà così. L’anno scorso, era accaduto che per il periodo 2016-2020 il tasso di crescita del PIL fosse risultato -0,0215%.

In altre parole, i contributi INPS sarebbero dovuti essere “svalutati”, anziché rivalutati.

In virtù della legge n.65 del 2015, però, non è possibile applicare ai contributi INPS accumulati dal lavoratore un tasso negativo. Se dovesse capitare che la crescita del PIL nel lustro precedente risulti inferiore a zero, il montante rimarrebbe invariato. Non subirebbe alcuna variazione negativa o positiva. Tuttavia, alla prima rivalutazione successiva si sottrae il tasso negativo non applicato in precedenza.

Effetti crisi del PIL

Pertanto, per i contributi INPS versati al 2021 ci sarà una rivalutazione non dello 0,9973%, bensì dello 0,9758%. Il montante, quindi, andrà moltiplicato per 1,009758. L’aumento ci sarà, ma un po’ più basso di quello che sarebbe spettato in assenza di una crisi del PIL nel 2020, quando l’economia italiana crollò del 9% a causa della pandemia. D’altronde, per chi è andato in pensione quest’anno non c’è stata alcuna svalutazione dei contributi INPS.

Supponiamo di avere accumulato al 31 dicembre 2021 un montante pari a 200.000 euro. Per effetto della rivalutazione, questo salirà a 201.991,60 euro. Senza il taglio, sarebbe salito a 201.994,60 euro. Parliamo nel caso specifico di una differenza di soli 3 euro, che ai fini pensionistici equivarrà a pochi centesimi all’anno. Nulla che possa impensierire per fortuna i pensionati “in pectore”. D’altra parte, se i contributi INPS fossero stati svalutati quest’anno, la base di calcolo per la rivalutazione sarebbe stata più bassa.

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