Con l’avallo del CDA all’offerta vincolante avanzata dal fondo americano Kkr, la rete Tim in capo a NetCo passerà entro l’estate prossima sotto il controllo di un investitore istituzionale straniero. Nel commentare l’operazione, Franco Bernabè, che fu amministratore delegato e poi presidente esecutivo della compagnia, ha sostenuto che l’Italia avrebbe perso la battaglia per la conquista della “leadership tecnologica”, additando gli errori commessi nell’ultimo trentennio. La cessione agli americani sarebbe, a suo dire, oramai una “scelta obbligata”.

Polemiche per la perdita di un asset strategico

Vediamo cosa sta succedendo con l’ex monopolista delle telecomunicazioni. Kkr ha offerto fino a 22 miliardi di euro per rilevare la rete Tim. Questa è già stata formalmente scorporata e posta in capo a NetCo, società controllata ancora dal gruppo. Lo stato italiano acquisirà il 20% del capitale per 2,5 miliardi e un restante 10-15% andrebbe al fondo F2i. Entro qualche anno, NetCo verrebbe fusa con Open Fiber, società attiva nella fibra ottica e controllata al 60% da Cassa depositi e prestiti e al 40% dal fondo australiano Macquarie dopo l’uscita di Enel dal capitale.

CDP è allo stesso tempo azionista di Tim con una quota prossima al 10%. La fusione riporterebbe la rete Tim sotto il controllo dello stato dopo circa un trentennio. In teoria, quindi, l’operazione in corso sarebbe da considerarsi positivamente, se l’obiettivo fosse di riprendersi il controllo di un asset strategico. Attenzione ai termini: comunque vada, non perderemo il controllo dell’infrastruttura per la semplice ragione che non lo abbiamo già. Allo stato attuale, il primo azionista della compagnia è Vivendi con il 23,75%. Trattasi di un operatore francese delle telecomunicazioni, posseduto dalla famiglia Bolloré.

Il saccheggio della compagnia con la privatizzazione

L’ingresso di CDP nel capitale di Tim risale alla primavera del 2018, quando a capo del governo c’era ancora (per poco) Paolo Gentiloni e ministro dello Sviluppo era Carlo Calenda.

L’operazione fu il tentativo di reagire allo strapotere del controllante francese, che sembrava puntare semplicemente a contenere la possibile crescita all’estero di un suo concorrente. La verità è che la rete Tim da molti anni è gestita da una società che non parla italiano. E il peccato originale si ebbe con la privatizzazione del 1997. Non perché in sé fosse sbagliata, bensì per le modalità post-sovietiche in cui avvenne. Un pezzo di industria italiano fu s-venduto a un gruppo di imprenditori senza volto e, soprattutto, senza un piano.

Il culmine della maledizione per l’allora Telecom Italia si ebbe nel 1999. Roberto Colaninno lanciò un’OPA da 50 miliardi di euro (oggi in borsa la compagnia vale dieci volte meno) e per il 90% facendo ricorso ai debiti. Debiti, che saranno scaricati sulla controllata. Un paio di anni più tardi, Colaninno e soci scapperanno con la cassa, lasciando una compagnia esanime e senza alcun piano industriale. I numeri parlano chiaro. Nel 2022, ha fatturato 15,8 miliardi di euro (23,2 miliardi nel 1997) contro i 40 miliardi della spagnola Telefonica, i 114,4 della tedesca Deutsche Telekom, i 43,5 della francese Orange Sa e i 23,5 della britannica British Telecom.

Rete Tim, accordo CDP-Kkr?

Tim ha un debito netto di 25,4 miliardi, esibendo il rapporto più alto tra le società sopra citate rispetto ai ricavi. Molti di coloro che in questi giorni si stracciano le vesti per la presunta perdita di un asset strategico come la rete Tim, furono protagonisti compiacenti o ignavi del saccheggio della compagnia tra fine anni Novanta e inizi anni Duemila. Pensate che le azioni TIM si acquistavano fino a 9 euro nel 2000, mentre oggi bastano 25 centesimi. In borsa la società capitalizza ad appena un terzo del fatturato. Lo scorporo effettivo della rete consentirà ai conti aziendali di risanarsi, ma al costo di trasformare la società in un operatore telefonico come un altro.

Il controllo della rete Tim da parte dello stato, ammesso che in futuro ci fosse davvero, non è garanzia di alcunché. Servono quattrini per investire nella fibra ottica e per ridurre il digital divide. La nuova entità dovrà avere le spalle larghe per gestire questa fase. Interessante, poi, capire eventualmente quale possa essere la ricompensa di Kkr per avere permesso allo stato italiano di riappropriarsi dell’infrastruttura dopo un periodo di transizione. Sembra evidente che la CDP giochi di sponda in questa offerta, sebbene non formalmente e al solo fine di negare a Vivendi la convocazione dell’altrimenti necessaria assemblea degli azionisti per valutare la cessione.

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