C’erano una volta le banche centrali, quelle che alzavano i tassi d’interesse quando l’inflazione saliva e li abbassavano quando scendeva. Chi più e chi meno, hanno smesso di assolvere al loro dovere nel lontano 2008, l’anno dell’infausta crisi finanziaria mondiale scatenata dal crac di Lehman Brothers. La paura che si scatenasse una crisi di liquidità nel circuito bancario fu allora così enorme, che i governatori ruppero gli indugi e iniziarono a iniettarla direttamente acquistando bond sui mercati e azzerando i tassi.

Presero il via le cosiddette politiche monetarie non convenzionali o non ortodosse, anche se oramai sono diventate fin troppo ordinarie.

Perché le banche centrali alzano i tassi quando l’inflazione sale? Per rendere più costoso il denaro, cioè per frenare il credito all’economia, accrescere i risparmi delle famiglie e drenare liquidità dal mercato. Interessi più alti spingono i risparmiatori a portare il loro denaro in banca, sottraendolo ai consumi. D’altra parte, disincentivano le imprese ad investire. L’economia si “raffredda” e così anche i prezzi. Il contrario accade con il taglio dei tassi.

Dicevamo, però, che le banche centrali hanno smesso di agire secondo questi criteri standard. Dopo avere iniettato sui mercati migliaia di miliardi di dollari di liquidità, sono come in trappola. Se alzassero i tassi, le borse crollerebbero, abituate come sono a oltre un decennio di “easy money”. E anche imprese e governi sarebbero in grossa difficoltà, avendo potuto raccogliere capitali a costi bassissimi e perlopiù negativi in termini reali, se non nominali, per un periodo lunghissimo.

Il dilemma delle banche centrali

Mantenere i tassi e fingere che l’inflazione non esista o sia “transitoria”, però, rischia di costare altrettanto caro. I prezzi alla produzione stanno impennandosi a doppia cifra. Ad ottobre, sono saliti del 20,4% in Italia e del 18,4% in Germania, ad esempio.

Per quanto l’inflazione nei due paesi sia lievitata, essa ha raggiunto livelli per fortuna molto più contenuti, cioè del 4% e del 6% rispettivamente. Questo significa due cose: o prima o poi i prezzi schizzeranno in egual misura anche a carico dei consumatori finali o i margini del comparto commerciale si ridurranno drasticamente. Nel primo caso, assisteremmo a tassi d’inflazione a due cifre come negli anni Settanta e Ottanta, nel secondo al fallimento di numerose attività, una vera “apocalisse” del retail.

In entrambi gli scenari, l’economia reale ne soffrirebbe moltissimo. I consumi crollerebbero per via o della perdita del potere d’acquisto delle famiglie o della moria di attività. Le banche centrali ne uscirebbero definitivamente screditate, essendo riuscite solamente a salvare la finanza, salvo tradire il loro mandato, che consiste principalmente o esclusivamente nel mantenere la stabilità dei prezzi. Uno scenario agghiacciante di cui di dibatte da anni, ma fintantoché l’inflazione se n’era rimasta zitta e buona, i governatori avevano potuto continuare a spadroneggiare come divinità. Adesso, i nodi sono arrivati al pettine. E se anche per un rialzo dei tassi dello zero virgola si temo sfaceli, figuratevi cosa accadrà con tassi reali positivi.

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