Sembra uno scherzo, invece la seconda economia mondiale sta scivolando verso la deflazione. E questo sta accadendo con gran parte del pianeta alle prese con il problema opposto, ovvero un aumento dei prezzi al consumo eccessivo. La Cina va in direzione opposta. A giugno l’inflazione è risultata pari a zero, mentre su base mensile i prezzi sono scesi dello 0,2%. Il dato “core”, al netto di energia e generi alimentari, è salito di appena lo 0,4%. Si è trattato della lettura più debole dal febbraio del 2021, quando la variazione tendenziale dei prezzi era stata negativa.

Sempre in Cina i prezzi alla produzione a giugno sono diminuiti del 5,4% annuale, in accelerazione dal -4,6% di maggio. E’ stato il nono calo consecutivo. Com’è possibile che l’Occidente combatta a colpi di aumenti dei tassi d’interesse per abbassare l’inflazione e la Cina lotti per evitare la deflazione? Consumi e investimenti deboli stanno rallentando i ritmi di crescita dell’economia cinese. Nel primo trimestre di quest’anno, tuttavia, aveva registrato un’accelerazione al +2,2% trimestrale e +4,5% annuale.

Evidentemente, i contraccolpi del rallentamento economico europeo, in particolare, si stanno facendo sentire. La Cina è un’economia esportatrice. Vende ogni anno qualcosa come quasi 600 miliardi di dollari di beni nei soli Stati Uniti e ancora di più nell’Unione Europea (626 miliardi nel 2022). Le esportazioni di beni incidono per il 20% del suo PIL e la bilancia commerciale si mostra attiva per il 4% del PIL, contribuendo positivamente alla crescita. Il rischio deflazione quasi certamente spingerà la Banca Popolare Cinese a proseguire nei tagli dei tassi. Il “loan prime rate” a 12 mesi fu abbassato a giugno dello 0,10% al 3,55% e il tasso a 5 anni, riferimento per il mercato dei mutui, di altrettanto al 4,20%.

Deflazione Cina, taglio tassi e stimoli fiscali

Dunque, la Cina sta andando nella direzione esattamente opposta all’Occidente. Riduce il costo del denaro per rianimare economia domestica e prezzi.

Ben presto potrebbe trovarsi costretta a varare anche stimoli fiscali. Non stupisce che il cambio si stia indebolendo. Dai massimi toccati contro il dollaro a metà gennaio, perde il 7%. Uno yuan più debole è una cattiva notizia per gli esportatori di materie prime. La Cina è principale economia importatrice di petrolio. Ciò fa capire meglio perché l’OPEC abbia ridotto l’offerta per due volte in due mesi e l’Arabia Saudita insieme alla Russia si siano accollati nelle scorse settimane un terzo taglio.

La deflazione cinese presagisce un clima economico meno vivace in Europa e Nord America nei prossimi mesi. Allo stesso tempo, prospetta una possibile accelerazione nei cali dei tassi d’inflazione per mezzo del tonfo per i prezzi delle materie prime. Il quadro macro globale rischia, tuttavia, di complicarsi nel breve termine. Se anche gli Stati Uniti dovessero cedere il passo dopo una lunga resilienza quasi al limite dell’incredibile, a quel punto avremmo tutte le tre principali economie del pianeta o in recessione o in stagnazione.

Alla base di questa evoluzione ci sarebbe il mix tra stretta monetaria e perdita del potere di acquisto in Occidente. Investire e consumare a debito costa di più, mentre si riducono i margini di spesa per le famiglie a causa dei rincari. Inevitabile il calo della domanda aggregata interna. Solo un’accelerazione delle esportazioni sarebbe teoricamente capace di sopperire a tale debolezza domestica. Ma a chi vendere se nel frattempo tutte le grandi economie segnano il passo? Ecco, quindi, che la deflazione cinese si presta a una doppia lettura. Da un lato, ci fa guardare con un pizzico di ottimismo in più alla fine degli alti livelli d’inflazione. Dall’altro, è la spia che tale scenario si starebbe concretizzando a seguito di un rallentamento economico globale.

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