La Cina ha salutato l’arrivo del nuovo anno (per il calendario occidentale) con un allarme di colore rosso per lo smog in 24 città del nord-est, il livello più alto previsto dal paese. A Pechino, le polveri sottili sono state nei giorni scorsi di 24 volte più alte il livello massimo consentito, tanto che sono stati cancellati ben 100 voli solo nella capitale e altri 300 nella vicina città portuale Tianjin. In media, il livello annuale di PM2.5 a Pechino è di 80 microgrammi per centimetro cubo, molto al di sopra dei 35 massimi dell’obiettivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma anche dei 60 perseguiti dal governo cinese.

A fare innalzare lo smog in questi giorni è stato l’uso più intenso di carbone, che nella stagione invernale riscalda le case di milioni di famiglie cinesi. Il carbone rappresenta ancora il 60% dell’offerta energetica nel paese, tanto che lo stesso governo, nonostante i propositi di ridurne la capacità produttiva entro la fine del decennio, punta ad aumentarla a circa 4 miliardi di tonnellate al 2020, seppur in lieve rialzo rispetto ai livelli attuali, che si aggirano sui 3,75 miliardi. (Leggi anche: Investimenti a rischio con le miniere di carbone)

Allarme smog legato a uso intenso di carbone

Pechino si è posta già l’obiettivo di ridurne l’uso al 62,6% entro il 2016 e di stabilizzarne la produzione intorno al 60% del totale dell’offerta energetica. Il rallentamento della crescita è in atto negli ultimissimi anni, con ritmi annuali del 3% dal +10% del periodo precedente, segno che l’uso del carbone starebbe avvicinandosi al picco massimo.

Il governo sta cercando da tempo di porre rimedio a una situazione sempre meno sostenibile e tollerata dalla classe media locale. Le emissioni di CO2 dovrebbero raggiungere il picco nel 2030 e stabilizzarsi, così come le emissioni di metalli pesanti a fine 2015 risultavano già ridotte del 27,7% rispetto a quelle del 2007.

 

 

 

 

Speranza di vita intaccata dall’inquinamento in Cina

Nel tentativo di fare rispettare le norme ambientali, Pechino ha lanciato una serie di ispezioni dal 2016, ma puntando a controllare non tanto le imprese, bensì i governi locali, arrivando a sanzionare 3.000 funzionari e ad arrestarne 310, un passo notevole nel contrasto alle irregolarità.

Lo stesso presidente Xi Jinping ha sollecitato i governi locali a non utilizzare più il pil tra gli indici di performance, ma ad inserire anche indicatori ambientali.

L’aria irrespirabile esporrebbe a problemi di salute qualcosa come 460 milioni di cinesi, una popolazione quasi simile a quella dell’intera Europa e superiore al Nord America. Secondo uno studio del 2013, condotto dal MIT, l’Università di Pechino e quella Ebraica di Gerusalemme, l’inquinamento dell’aria in Cina avrebbe accorciato la speranza di vita dei cinesi di 5,5 anni e sarebbe legato a un milione di morti all’anno, un terzo del totale del paese.

Costosa la lotta allo smog

Più che una questione di sensibilità ambientale, il governo si sta rendendo conto dell’insostenibilità di questa situazione, anche perché parte della popolazione inizia a non tollerarla, chiedendo che vengano adottate misure appropriate. Queste significano costi per migliorare gli impianti produttivi, ma che avvicinerebbero le imprese cinesi agli standard occidentali, con il risultato di renderle meno competitive sui mercati internazionali.

Aldilà delle parole, ogni settimana vengono aperti due nuovi impianti per l’estrazione del carbone in Cina, a conferma di quanto Pechino continui a puntare sulla materia prima per ricavarne la gran parte dell’offerta energetica nazionale. Solo una coscienza civica più sviluppata potrebbe invertire la tendenza. Non ci siamo ancora qui, anche se forse non siamo nemmeno così lontani dal raggiungerla.