Nel maggio del 2018, ricevette l’incarico di formare il nuovo governo, il primo di questa legislatura, chiamato da Washington dal presidente Sergio Mattarella. Ma l’economista e già commissario alla “speding review” Carlo Cottarelli dovette tornarsene a casa con lo stesso trolley con cui era rientrato a Roma. A leggere alcune delle sue dichiarazioni, diremmo per fortuna. Un esempio del suo pensiero scarsamente illuminato ce lo offre sulla proposta di elevare la tassazione sulle rendite immobiliari. In particolare, a Cottarelli non va proprio giù la cedolare secca sugli affitti.

Nel 2011, l’allora governo Berlusconi introdusse una tassazione forfetaria sui canoni di locazione, prevedendo due aliquote: al 21% per i canoni di libero mercato e al 10% per quelli concordati. Le due aliquote si applicano solamente agli immobili locati ad uso abitativo. Di quella più bassa ci si può avvalere nei casi in cui il proprietario dell’immobile conceda un’abitazione in locazione a un canone non superiore a quello massimo per metro quadrato fissato dagli accordi locali tra associazioni degli inquilini con quelle dei conduttori degli immobili.

L’obiettivo della cedolare secca è stato sin da subito favorire i proprietari per vivacizzare il mercato degli affitti. In alternativa, questi possono avvalersi della tassazione ordinaria, ovvero sottoporsi alle aliquote IRPEF, che variano in base al reddito dal 23% al 43%. Va da sé che la cedolare secca convenga praticamente sempre, essendo la sua aliquota del 21% (10% solo per i casi sopra indicati), cioè inferiore all’aliquota IRPEF minima.

Secondo Cottarelli, non va bene. Egli sostiene, infatti, che questa normativa non sarebbe equa, in quanto il proprietario dell’immobile si ritroverebbe a pagare meno di quanto dovrebbe con il primo scaglione IRPEF e anche meno del 26% imposto sulle rendite finanziarie. A suo avviso, la cedolare secca verrebbe concessa “in cambio di nulla”, visto che i canoni su cui grava sono di libero mercato.

Si perderebbero, stando ai suoi calcoli, 1,5 miliardi di gettito annuo, che potrebbe essere destinato a sostenere l’edilizia pubblica. L’economista dimentica, tuttavia, che chi si avvale della tassazione forfetaria non può aumentare il canone nel corso della durata del contratto, per cui si espone a un certo rischio, pur minimo negli ultimi anni. Infatti, con la tassazione ordinaria potrebbe ogni anno aumentare il canone di locazione all’inquilino secondo l’inflazione rilevata dall’ISTAT.

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La cantonata di Cottarelli sugli affitti

Secondariamente, quella che Cottarelli definisce una misura iniqua serve semplicemente ad attenuare la già elevata tassazione sugli immobili. Ricordiamo, ad esempio, che il proprietario deve pagare anche l’IMU, una grossa batosta in molti casi e che può superare benissimo i 1.000 euro l’anno. E i costi non si fermano qui, perché quelli legati alla manutenzione straordinaria restano chiaramente a carico del proprietario. Si tratta di spese che prima o poi arrivano, specie per gli immobili di costruzione più datati. E se l’inquilino non versa uno o più canoni mensili, poco importa: l’IMU e la cedolare secca o l’aliquota IRPEF dovranno essere pagate ugualmente. Non sono pochi i casi di chi versa al fisco più di quanto riesce a incassare dall’affitto, specie in periodi di crisi come questa, in cui molti affittuari versano in condizioni finanziarie molto negative.

A inizio anni Novanta, il legislatore rimosse finalmente la legge sull’equo canone, introdotta negli anni Settanta, resosi conto che una misura volta a garantire gli inquilini, cioè il contraente presumibilmente debole, era finita con il danneggiarli. Come? Molte case rimanevano sfitte perché i proprietari si rifiutavano di darle in locazione a tariffe troppo basse rispetto al rischio di inadempienza contrattuale. Molte altre venivano affittate in nero, sfuggendo al fisco e alle elementari regole di tutela delle parti.

Con la cedolare secca, il legislatore ha voluto compiere un nuovo passo in avanti nel favorire il mercato degli affitti, facendo emergere irregolarità da un lato e nuova offerta dall’altro.

Se la tassazione sui canoni di locazione venisse inasprita, due sarebbero le conseguenze d’impatto: molti proprietari scaricherebbero l’aggravio sugli inquilini e altri rinuncerebbero a locare le abitazioni (in regola). Anche questo secondo scenario porterebbe a una lievitazione dei canoni per effetto della minore offerta disponibile, specie nelle grandi città.

Infine, ci permettiamo di far notare a Cottarelli che un possedere un secondo immobile di proprietà non è roba da avidi fortunati, ma frutto di risparmio proprio o delle precedenti generazioni. Il risparmio è ciò che resta dopo avere consumati il reddito, cioè pagato sia l’IRPEF che l’IVA. Chi risparmia ha già dato allo stato. Tartassare i risparmi non è mai un buon viatico per favorirli. E senza risparmi non ci sono neppure investimenti, quelli che all’Italia servono come l’aria per tornare a crescere. Gli immobili, poi, non sono investimenti secondari, perché senza si rischia di strozzare il mercato del lavoro in certe aree ad alta intensità abitativa. Le locazioni favoriscono anche la ristrutturazione degli immobili e accrescono di conseguenza il decoro urbano. Stangarle equivale a danneggiare un comparto, quello dell’edilizia, dimostratosi pro-ciclico e che in realtà come il Portogallo ha consentito proprio grazie a misure di sostegno del mercato degli affitti di attrarre fette di turismo internazionale dopo avere riqualificato intere zone quasi ghettizzate fino a qualche anno prima.

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