Nella maggioranza non c’è ancora un accordo sulla riforma fiscale. Da una parte Lega e Forza Italia, che hanno già perso la battaglia sulla riforma del catasto. Dall’altro Movimento 5 Stelle e PD, che intendono toccare la casa anche attraverso la cedola secca. Esso è un regime facoltativo di cui si possono avvalere i proprietari di immobili locati a scopo abitativo. Consiste nel sottoporre i canoni di locazione a una tassazione forfetaria del 21%, aliquota che scende al 10% per i canoni concordati.

Questa misura fu introdotta dall’ultimo governo Berlusconi e per il centro-destra si tratta di una bandiera intoccabile.

Il centro-sinistra vorrebbe alzare l’aliquota dal 21% al 26% sull’assunto che i redditi prodotti dagli immobili debbano essere tassati esattamente quanto quelli derivanti dagli investimenti finanziari. Tra l’altro, si discute sull’opportunità di stangare persino i rendimenti dei titoli di stato al 26% dall’aliquota di favore attualmente fissata al 12,50%.

Come funziona la cedolare secca

La cedolare secca ha contribuito a fare emergere molti contratti di affitto in nero, chiaramente a beneficio degli inquilini, che possono godere delle tutele normative, oltre che della detrazione dei canoni in sede di dichiarazione dei redditi. Essa sostituisce anche le imposte di registro e di bollo all’atto della registrazione del contratto. Ma il proprietario dell’immobile deve annualmente comunicare al Fisco se intende avvalersi o meno di tale opzione. Per tutto il periodo in cui lo fa, non potrà adeguare il canone all’indice dell’inflazione ISTAT.

In questi anni, tale limite non era percepito come tale dai proprietari di case, grazie alla bassa inflazione. Adesso, le cose stanno cambiando. Il fatto che l’aliquota ordinaria della cedolare secca sia leggermente inferiore a quella minima IRPEF a cui i canoni con il regime ordinario sarebbero altrimenti tassati, non significa anche che la convenienza sia sempre e comunque.

Confronto con regime IRPEF ordinario

Facciamo un esempio pratico. Immaginiamo di affittare un immobile per 500 euro al mese, cioè 6.000 euro all’anno. E supponiamo anche di avere altri redditi da pensione per appena 7.000 euro, per cui abbiamo dinnanzi a noi una scelta: avvalerci della cedola secca al 21% o optare per il regime ordinario, nel quale caso pagheremmo il 23%. Nella prima ipotesi, per tutta la durata di 8 anni del contratto (rinnovo incluso) incasseremmo 48.000 euro totali. Su questa cifra, pagheremmo complessivamente poco più di 10.000 euro, per cui il nostro guadagno netto ammonterebbe a 37.920 euro.

Se la cedolare secca stangasse gli affitti al 26%, il nostro guadagno scenderebbe a 35.520 euro. E se ci avvalessimo del regime ordinario? Pagheremmo il 23%, ma in cambio potremmo adeguare annualmente il contratto secondo il tasso d’inflazione. Immaginando che questa fosse del 3,5% all’anno per tutti i prossimi 7 anni fino alla scadenza del contratto, il nostro incasso netto sarebbe di circa 41.820 euro. Dovremmo sottrarre le imposte di bollo e di registro sia all’accensione del contratto che in fase di rinnovo, ma parliamo di poca roba.

Rischio caro affitti con la stangata fiscale

L’esempio ci dimostra in maniera lampante che già senza innalzare la cedolare secca al 26%, il regime ordinario può rivelarsi più conveniente. Addirittura, lo sarebbe nel caso appena esposto persino se i canoni rientrassero per tutti gli 8 anni nel secondo scaglione IRPEF con aliquota del 25%. In questo caso, il nostro guadagno complessivo scenderebbe solo a 40.730 euro, restando ben superiore a quello che avremmo avvalendoci della cedolare secca. E persino se immaginiamo che per metà i canoni rientrassero nel secondo scaglione e per l’altra metà nel terzo con aliquota al 35% (per redditi sopra 28.000 e fino a 50.000 euro lordi all’anno), il guadagno netto resterebbe superiore a quello che avremmo con la cedolare secca, attestandosi sui 38.000 euro.

Questo ci dimostra che nel caso di inflazione moderata, i proprietari delle case potrebbero trovare più conveniente restare con il regime ordinario. Se, poi, lo stato si mettesse di traverso e stangasse i canoni di locazione con la cedolare secca al 26%, l’appetibilità dell’opzione verrebbe in molti casi meno. E non solo per i redditi medio-alti, come finora abbiamo ipotizzato. Il rischio è che molti contratti siano adeguati di anno in anno al tasso d’inflazione per sfuggire alla scarsa convenienza della cedolare secca. In alternativa, saranno fissati già più alti sin dall’inizio per scontare la maggiore inflazione attesa. Insomma, lo stato starebbe incentivando il caro affitti e non certo colpendo chissà quale categoria ricca di contribuenti.

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