Cambio euro-dollaro ai minimi da fine giugno venerdì scorso, riflettendo le incertezze globali e, nello specifico, quelle attinenti l’Eurozona, tra rallentamento in atto della crescita e tensioni politiche, specie con la nascita del governo Conte in Italia. La retorica trumpiana sui dazi intimorisce i mercati, ma non penalizza il dollaro, che anzi guadagna il 6,6% da metà marzo contro le principali valute del pianeta, salendo ai massimi da fine ottobre, ossia da 8 mesi e mezzo a questa parte. Ma cosa si aspetta il mercato per i prossimi mesi sul cross tra le due principali divise mondiali? Un modo per capirlo si ha guardando ai rendimenti dei Treasuries, confrontandoli sulle varie scadenze con quelle dei Bund, questi ultimi in qualità di titoli “benchmark” dell’unione monetaria.

Cambio euro-dollaro sotto 1,20, ecco cosa ci segnala lo spread Treasury-Bund 

Lo spread Treasury-Bund segnala la perdita di rendimento per chi decidesse di investire in titoli tedeschi, anziché americani. Facciamo un esempio: un Bund a 10 anni rendeva venerdì scorso appena lo 0,27% contro il 2,84% del bond USA. In 10 anni, chi comprasse il primo rinuncerebbe al 25,7% di rendimento “extra”, che otterrebbe investendo nel secondo. Tuttavia, se il cambio euro-dollaro salisse della stessa percentuale, ovvero l’euro si apprezzasse del 25,7% contro il dollaro, la “perdita” verrebbe colmata, visto che i Bund vengono emessi nella divisa europea e i Treasuries in quella americana. Pertanto, se i mercati fossero del tutto razionali, starebbero richiedendo ai governi rendimenti in linea con le variazioni attese del cambio euro-dollaro.

In altre parole, i decennali della prima e quarta economia mondiale ci suggeriscono che l’investimento in Bund o Treasuries sarebbe perfettamente equivalente con un cambio euro-dollaro da qui a 10 anni a 1,46 dall’1,1625 attuale. Proseguendo lo stesso ragionamento con le altre scadenze, otteniamo che lo spread a 5 anni si attesta a 306 punti base o 3,06%, pari a una differenza quinquennale cumulata del 15,3%.

Essa sarebbe annullata da un cambio euro-dollaro risalito a 1,34% da qui al 2023. Sui 2 anni, abbiamo il 2,59% contro l’ancora -0,66%, ovvero servirebbe un apprezzamento dell’euro del 6,5% in 2 anni a 1,2380 per rendere i due bond equivalenti. Per la scadenza annuale, invece, lo spread si attesta al 3%, per cui basterebbe che entro i prossimi 12 mesi l’euro scambiasse contro il dollaro a 1,1975.

Euro più forte, ma recessione USA vicina?

Queste cifre ci spiegano che il mercato si attende nel complesso un euro più forte da qui ai prossimi anni. Ora, man mano che le scadenze si allungano, diviene difficile capire quanto i rendimenti esitati da USA e Germania possano essere compatibili con l’evoluzione realistica del cambio euro-dollaro. Se ci viene facile immaginare che una BCE più restrittiva nei prossimi mesi spingerà il cambio euro-dollaro in area 1,20 e pure ben oltre, le previsioni a 5 e 10 anni appaiono più azzardate. Un rapporto di 1,34 da qui a 5 anni è attendibile, uno di 1,46 a 10 anni sarebbe possibile, ma non necessariamente verosimile. Significherebbe tornare a una condizione pre-crisi, quando il cross valutario raggiunse l’apice di 1,50, valori non alla portata nel raggio temporale di medio-termine, scontrandosi con l’oggettiva distonia tra le due banche centrali e i rispettivi cicli economici. Ma questo accade oggi, per l’appunto.

C’è un altro indicatore che ci aiuta a capirne di più: la curva dei contratti “forward” euro-dollaro. Essa ci spiega quanti dollari contro euro il mercato s’impegna a scambiare per le scadenze future. Risulta invertita, pur di poco, settimana scorsa, segnalando che dal dicembre dell’anno prossimo non dovrebbero esserci più rialzi dei tassi negli USA da parte della Federal Reserve o che le distanze tra Fed e BCE diminuiranno per via del rialzo dei tassi molto probabile nell’Eurozona, il quale dovrebbe materializzarsi proprio dalla seconda metà del 2019.

In altre parole, anche la curva euro-dollaro ci indicherebbe un euro tendenzialmente destinato a rafforzarsi. Del resto, non serve un genio della finanza per capire che prima o poi inizieremo a risalire dopo anni di accomodamento monetario, che ha schiantato il tasso di cambio da 1,40 del maggio 2014 a un minimo di poco superiore all’unità di inizio 2017. E, però, non vorremmo che la curva euro-dollaro invertita e quella dei rendimenti americani appiattita similmente al periodo pre-crisi non stessero anticipando una possibile recessione dell’economia americana. Essa avrebbe la forza di trascinare anche l’economia dell’Eurozona in crisi, per cui a un iniziale indebolimento del dollaro seguirebbe un ripiegamento dell’euro.

Operazione “twist” della BCE non appiattisce la curva, ma rendimenti a 30 anni giù

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