A Pechino è scattato l’allarme rosso. I dati dell’ultimo censimento dicono che la popolazione cinese sia salita a 1,41 miliardi di abitanti nel 2020, ma il calo delle nascite prosegue incessante. I nati sono stati appena 12 milioni l’anno scorso, mai così pochi dal 1961, anno della grande carestia che provocò la morte di milioni di persone. E così, il presidente Xi Jinping e il Politburo, l’organo decisionale del partito comunista, hanno concordato un’ulteriore liberalizzazione della politica demografica: tutte le famiglie potranno avere fino a 3 figli.

Dalla fine degli anni Settanta e fino al 2016, la legge imponeva alle famiglie il figlio unico. Erano ammesse come eccezioni le famiglie che risiedevano nelle campagne e quelle appartenenti alle minoranze etniche. Cinque anni fa, la svolta con l’ammissione del secondo figlio. Il regime si aspettava un’improvvisa risalita delle nascite. Invece, il loro calo non ha fatto che proseguire senza sosta.

L’allarme è serio. Di questo passo, la popolazione attiva si ridurrà e il mercato del lavoro diventerà sempre più piccolo, mentre la popolazione continuerà ad invecchiare. Non a caso, nell’annunciare la possibilità di avere anche il terzo figlio, il governo ha fatto presente che con la gradualità dovuta varerà anche una riforma delle pensioni. Obiettivo chiaro: elevare l’età pensionabile dagli attuali 60 anni per gli uomini e fino a 50 anni per le donne.

Calo delle nascite, soluzioni dubbie

Allungando l’età lavorativa, spera di ottenere due risultati: contenere gli effetti del calo delle nascite sul mercato del lavoro e i costi della previdenza. Ma la stessa popolazione si mostra scettica sull’efficacia della svolta. Sui social, molti commentavano ieri ironici e infastiditi circa le conseguenze di questa nuova politica. Molte coppie costituite da coniugi figli unici si ritroverebbero ad accudire fino a 3 figli, oltre i rispettivi genitori. In effetti, quattro decenni di stretta demografica ha creato intere generazioni di figli unici, le quali adesso trovano complicato avere più di un solo figlio, dovendo accudire da sole mamma e papà.

Nei fatti, ieri la Cina ha ammesso involontariamente di avere fallito. Lo stato entrato fino in camera da letto sotto il regime comunista è finito per creare un disastro non facilmente risolvibile. Se tutto l’Occidente ha da tempo a che fare con il fenomeno dell’invecchiamento demografico, la Cina ci è arrivata quando ancora possiede un PIL pro-capite pari a una frazione di quello medio vigente tra le economie ricche. Peraltro, il calo delle nascite è conseguenza anche della difficoltà delle donne cinesi di barcamenarsi tra famiglia e lavoro, nonché della carenza di servizi.

Ed ecco che il regime comunista ha pensato bene di risolvere in parte il problema spostando 50 milioni di persone dalle campagne in città. Qui, avranno accesso a posti di lavoro meglio retribuiti, specie nell’industria manifatturiera, e a servizi qualitativamente migliori. Vero è che neppure i due terzi della popolazione cinese risiedono ancora oggi in città, ma pensare che la soluzione al calo delle nascite sia un esodo eterodiretto verso le aree urbane è semplicemente folle. Se il tasso di fertilità non risalirà dall’attuale 1,30, entro pochi anni la popolazione inizierà a diminuire e così anche la forza-lavoro. Verrebbe meno il principale fattore di forza dell’economia cinese, ossia l’abbondanza di manodopera a basso costo.

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