Sono quattro i quesiti preparati dalla Cgil di Maurizio Landini in vista di un possibile referendum abrogativo, che eventualmente verrebbe celebrato nella primavera dell’anno prossimo. Di questi, due riguardano il famoso Jobs Act: decreto n.23 del 2015 e tetto agli indennizzi ai lavoratori licenziati senza giusta causa. Gli altri due sono diretti a ripristinare le causali per i contratti a tempo determinato e le responsabilità dei committenti di appalti per gli infortuni sui luoghi di lavoro. Verrebbe da ridere se la questione non fosse seria.

Abbiamo il principale sindacato italiano che si accorge dell’entrata in vigore della riforma del lavoro a distanza di dieci anni.

Cgil di Landini contro la riforma del governo Renzi

Eh, già! Tanti ne sono passati da quando l’allora governo Renzi, sostenuto dal Partito Democratico, varò quella legge sulle tutele crescenti per i lavoratori dipendenti, che nei fatti smantellò l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, difeso strenuamente dai sindacati fino ad allora da ogni tentativo di riforma. Nel 2003 ci fu una maxi-manifestazione al Circo Massimo di Roma, in cui confluirono ben 3 milioni di persone per dire “no” alla riforma voluta dal governo Berlusconi. E la legge Biagi effettivamente entrò in vigore dimezzata.

Per giustificare un intervento a dir poco tardivo, Landini spiega che il referendum sul Jobs Act sia in difesa del lavoro e contro la precarietà. A suo dire, quella riforma avrebbe creato contratti a tempo perenni per giovani e non. Se il segretario della Cgil avesse, non diciamo studiato i numeri, ma perlomeno dato un’occhiata veloce ai dati Istat, si renderebbe conto delle castronerie pronunciate. Indipendentemente dal giudizio su quell’atto normativo, i numeri raccontano una verità incontrovertibile: da quando il Jobs Act è entrato in vigore, è cresciuta l’occupazione e, soprattutto, stabile.

Dati Istat sul lavoro dopo il Jobs Act

Il Jobs Act entrò formalmente in vigore dal 7 marzo del 2015, quando fu consentito ai datori di lavoro di assumere senza l’assillo dell’art.

18, che vietava il licenziamento senza giusta causa per le imprese sopra i 15 dipendenti. Da allora, il numero degli occupati in Italia è salito da 22 milioni e 13 mila a 23 milioni 773 mila unità, cioè di 1 milione 760 mila. Nello stesso arco di tempo, i posti di lavoro fissi sono passati da 14 milioni 315 mila a 15 milioni 969 mila: +1 milione 654 mila, pari al 94% della maggiore occupazione.

Se guardiamo ai soli dati relativi ai lavoratori dipendenti, il loro numero è cresciuto da 16 milioni 624 mila a 18 milioni 785 mila: +2 milioni 161 mila. In pratica, il lavoro dipendente è cresciuto più dell’occupazione, dato che nel frattempo è sceso il numero dei lavoratori autonomi da 5 milioni 390 mila a 4 milioni 988 mila unità. Dunque, i posti di lavoro fissi creati sono stati pari al 76,5% del totale, mentre i posti a termine sono anch’essi aumentati di circa mezzo milione: da 2 milioni 308 mila a 2 milioni 817 mila. Tre posti di lavoro su quattro a seguito del Jobs Act risultano essere stati creati stabili.

Minore precarietà negli ultimi anni in Italia

E lo stesso dato sul calo del numero dei lavoratori autonomi dovrebbe farci riflettere. Non solo segnala una tendenza storica ormai pluridecennale, ma sarebbe in parte sintomatico del minore ricorso da parte delle aziende alle false partite iva, fenomeno noto in passato più di oggi. Esso consisteva e, spesso consiste anche attualmente, nell’ingaggiare lavoratori effettivamente subordinati, ma attraverso il trucco dell’apertura della partita iva per evitarne l’assunzione formale e il relativo pagamento dei contributi previdenziali. Una forma di precarizzazione, in parte venuta meno con la riforma del 2015.

Landini dovrebbe spiegare ai suoi stessi iscritti, ancor prima che agli italiani, per quale motivo vorrebbe picconare una legge che ha, se non aiutato direttamente, perlomeno non impedito che il tasso di occupazione salisse nel frattempo dal 55,6% al 61,9%.

Tra gli uomini è passato dal 64,6% al 70,9% e tra le donne dal 54,2% al 58%. Ci sono anche 274 mila giovani tra 15 e 24 anni in più che lavorano oggi rispetto a prima del Jobs Act. La risposta di Landini non può essere numerica, bensì politica. La Cgil avallò il Jobs Act nel 2014-’15 per non disturbare il governo di centro-sinistra del tempo. Non vi furono scioperi contro la riforma, una pratica stranamente riscoperta dal sindacato con l’avvento al potere del centro-destra.

Landini lancia leadership a sinistra

Oggi che Matteo Renzi non è più segretario del PD e flirta anche apertamente con il governo di Giorgia Meloni, ecco che bisogna intestarsi una battaglia identitaria per abbattere la sua principale creatura normativa. L’obiettivo di Landini non consiste nel cancellare veramente la riforma, anche perché probabilmente il referendum abrogativo lo perderebbe o non raggiungerebbe il quorum. E’ solo un modo per dividere i “buoni” dai “cattivi” e lanciarsi come leader in questa sinistra in perenne ricerca di guide spirituali in patria e all’estero. L’attacco al Jobs Act serve a delineare i confini programmatici del nuovo/futuro PD. Non sarà indolore per il Nazareno di Elly Schlein, visto che una posizione a favore dell’eventuale referendum sarebbe accolta da una risata di milioni di cittadini. Hai voglia di dire che fosse un’altra fase. Il PD farebbe campagna per cancellare una sua stessa legge. Schizofrenia pura!

[email protected]