“Il governo ha fatto la scelta di vaccinare e con la gente sul posto di lavoro, piuttosto che chiusi in casa con il telefonino sulla bottiglia di latte a fare finta di fare smart working“. Il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, è tornato in settimana ad attaccare il cosiddetto lavoro a distanza, che, a suo dire, per i dipendenti della Pubblica Amministrazione si sarebbe rivelato negativo in termini di produttività e organizzazione dei carichi lavorativi.

La linea del “governo dei migliori” non cambia: lo smart working va utilizzato solo quando non se ne possa fare a meno e rimpiazzato con il lavoro in presenza alla prima occasione utile.

Brunetta non è mai stato un simpatizzante di questo strumento, andando in controtendenza rispetto al resto del mondo avanzato. Addirittura, la Francia nei mesi scorsi ha segnalato l’intenzione di incentivarlo nel settore privato, punendo le imprese che in pandemia non vi farebbero ricorso, pur avendone la possibilità.

La “lobby della pausa pranzo” colpisce ancora, diremmo. Lo scorso autunno, Brunetta chiarì che i dipendenti pubblici sarebbero tornati in ufficio dalla metà di ottobre, al fine di stimolare i consumi durante la pausa pranzo, ravvivando quelle attività andate deserte nelle città, come ristoranti e bar. Il tema è serio. Attorno alla pausa pranzo dei dipendenti pubblici c’è un giro d’affari di svariati miliardi. Lo smart working, resosi necessario per limitare i contatti e frenare i contagi, ha provocato ingenti danni alle attività commerciali gravitanti attorno a questo business.

Smart working innovazione “disruptive”

Tuttavia, pensare che una modalità di organizzazione del lavoro debba rimanere immutata per spingere i dipendenti a comprare il panino nei locali vicino all’ufficio, è a dir poco una visione imbarazzante. Brunetta dimostra ancora una volta il suo essere sprezzante verso una innovazione, che, se ben sfruttata, avrebbe ripercussioni positive sull’economia italiana.

Un lavoro agile e più produttivo nella Pubblica Amministrazione finirebbe per sostenere la crescita, beneficiando il settore privato che usufruisce dei servizi dello stato. Si risparmierebbero costi fissi, come luce e affitti per i locali, i quali potrebbero a loro volta alimentare una crescita degli stipendi più alta e/o l’abbassamento della pressione fiscale.

Sì, ma lo smart working non avrebbe funzionato durante la pandemia, sostiene il ministro. In moltissimi casi, è vero. E’ stata una modalità improvvisata, si è fatta di necessità virtù. Non c’è stata dietro alcuna preparazione. Molti dipendenti sono stati lasciati allo sbaraglio, il più delle volte costretti a lavorare con propri dispositivi informatici, con conseguenze che potete immaginare sul piano della sicurezza dei dati e della privacy. Ma adesso siamo entrati in un’altra fase. Il mondo post-pandemia è già cambiato. Le grandi imprese stanno tutte valutando di rendere definitivo lo smart working per i dipendenti, almeno per parte della settimana lavorativa.

Compito del ministro Brunetta sarebbe innovare e organizzare il lavoro dei dipendenti pubblici, così da migliorare il servizio all’utenza. Non è suo dovere, invece, occuparsi di bar e ristoranti nei pressi degli uffici. Questa mentalità retrograda sta rischiando di allontanare ulteriormente l’Italia dal resto del mondo avanzato. Già prima della pandemia eravamo tra gli ultimi in Europa per efficienza nella P.A. Pertanto, la battaglia contro lo smart working appare paradossale, come se vi fosse un mondo fatato da proteggere. Al contrario, si tratterebbe di apportare un processo di innovazione “disruptive”, cioè dalla forza dirompente e capace di stravolgere i connotati del settore pubblico come lo conosciamo. E dire che cincischiamo di digitalizzazione, svecchiamento della burocrazia, di cambio di mentalità. Dovremmo iniziare con lo scegliere ministri meno ottocenteschi e affezionati al rumore dei timbri sulle scartoffie quale metro di misurazione della produttività negli uffici.

[email protected]