“Brexit significa Brexit”, ha dichiarato il premier Theresa May al suo esordio come capo del nuovo governo del Regno Unito. Già, ma cosa significa esattamente Brexit? La risposta più immediata sembra essere una: inflazione! La sterlina ha perso quasi il 19% contro il dollaro dal giorno del referendum, quando il cambio era di 1,50, per scendere a meno 1,22 di queste ore. Contro l’euro, il saldo è già negativo di oltre il 15%. Al momento, un euro compra poco più di 90 centesimi di una sterlina, ma negli aeroporti britannici si scambia già un euro contro una sterlina, segnale che molti sudditi di Sua Maestà ritengono che questa sia la direzione.

Una sterlina più debole farà contente le imprese nazionali votate alle esportazioni, perché i prezzi dei loro prodotti o dei servizi erogati all’estero sono diventati in poche settimane molto meno cari per gli acquirenti stranieri, dunque, più competitivi. (Leggi anche: Brexit e sterlina debole redistribuiranno la ricchezza nel Regno Unito)

Sterlina debole e conseguenze sull’economia UK

Ma un’economia non è solamente basata sulle esportazioni; esiste anche l’altra faccia della medaglia, quella degli acquisti di beni e servizi dall’estero. E qui sono i primi problemi portati dalla Brexit ai britannici. Le importazioni sono diventate più care.

Se fino ad oggi, però, l’inflazione non ha risentito granché di queste dinamiche del cambio, anche perché la Brexit ha coinciso (e, in parte, l’ha provocata) con una nuova fase calante dei prezzi del petrolio, le cose inizieranno a cambiare già nelle prossime settimane, dopo i ribassi virulenti della sterlina in queste ultime sedute, contestualmente a una risalita delle quotazioni petrolifere sopra i 50 dollari al barile. (Leggi anche: Brexit, sterlina debole farà bene o male all’economia UK)

 

 

 

Il caso Marmite

Il caso emblematico in queste ore è la crisi nei rapporti tra la catena commerciale britannica Tesco e il colosso internazionale Unilever, che rifornisce alla prima svariati marchi, tra cui una famosa crema spalmabile, la Marmite, molto popolare e apprezzata dai consumatori di Sua Maestà, nonostante sia sconosciuta nel resto d’Europa, specie al Centro e al Sud.

Per farvi comprendere dell’importanza di questo prodotto per le famiglie nel Regno Unito, possiamo affermare che la crema Marmite stia ai consumatori britannici come la Nutella a quelli italiani.

Ora, perché parliamo di questo? Perché Unilever ha sospeso momentaneamente le relazioni commerciali con Tesco, dopo averle chiesto infruttuosamente di alzare i prezzi su una serie di marchi del 10%, a causa dell’indebolimento della sterlina, che renderebbe più costose le importazioni. Tesco si è rifiutata di agire ai danni della clientela, anche perché deve affrontare la concorrenza di altre catene, come Aldi e Lidl. Di più: la Marmite è prodotta in patria, per cui come si fa a giustificare agli occhi dei consumatori una stangata?

Il cambio non influisce solo sull’import-export

In teoria, avrebbe ragione Tesco. Se un prodotto viene fabbricato in loco, non si capisce perché mai debba risentire delle oscillazioni del cambio. Il fatto è che i bilanci di Unilever, che è una multinazionale anglo-olandese, sono pubblicati in euro, per cui l’indebolimento della sterlina comprime i suoi utili, indipendentemente che i beni venduti a Tesco siano di produzione britannica o meno. Infatti, i ricavi in sterline valgono adesso molto di meno in euro, per cui serve alzare i prezzi (in sterline), al fine di compensare almeno parzialmente il crollo del cambio.

Il caso Marmite spiega benissimo la complessità delle interazioni tra le variazioni del cambio e quelle dei prezzi interni a un’economia. Andiamo aldilà dell’import-export, comprendendo tutta una serie di relazioni industriali transfrontalieri, di cui il Regno Unito è stato ad oggi maestro.

Uscendo dalla UE, i britannici rischiano di pagare di più per comprare anche i prodotti nazionali.